Autore: Davide Levi
FRAMMENTI BIOGRAFICI (1950-1982)
Cosa scrive un uomo di 60 anni quando gli viene chiesto
di stendere una sua autobiografia? E ciò che mi ha chiesto Peretz, il
mio amico e maestro da più di 40 anni. "E' importante per i
posteri" mi ha spiegato "tu sei l'allievo numero 666 del Morè
Haim, come nel segno ricevuto. Devi scrivere la tua storia in un modo che
avvinca il lettore. Hai un anno per poterlo fare...".
Questa è la premessa, il resto verrà...
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Sono nato a Torino il 15 ottobre 1950, segno della
Bilancia. Quarto e ultimo figlio di Remo Levi e Nelda Donà. In effetti,
la dualità della Bilancia ha contraddistinto la mia persona, fin dalla
nascita. Mio padre, ebreo, milanese di città; mia madre, cattolica (si
convertirà in seguito all'ebraismo per profonda convinzione), veneta di
campagna. La mia vita, dall'età di 20 anni, si è intrecciata tra
Italia e Israele, che ho raggiunto per la prima volta nel 1970 per
intraprendere i miei studi di Social Work, all'Università Ebraica di
Gerusalemme.
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Sono un uomo di fede. Credo in un Dio Uno e Unico che ha
creato il mondo e che governa e giudica le sue creature in modo equo e
imperscrutabile. Fin dall'infanzia, non ho avuto dubbi sulla Misericordia e
sulla Giustizia del Signore e, nella maturità, grazie agli insegnamenti
dei miei mentori, ho imparato a scindere in modo inequivocabile
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Lo storico ed ex sindaco di Valdagno, Maurizio Dal Lago,
in occasione del Giorno della Memoria, scrisse su "Il Giornale di
Vicenza" (27.01.2001) la storia dei miei genitori, che riporto qui
testualmente: "Di Giuseppe Donà, falegname a Carmignano di Brenta,
lo Stato si ricordava due volte all'anno, quando gli forniva un paio di scarpe
ortopediche per via di quei piedi congelati nelle trincee della prima guerra mondiale.
Per tutto il resto, per la moglie e i sei figli, niente. Così, per
mantenersi in quella decorosa povertà tipica di tante famiglie venete
fra le due guerre, in casa Donà dovevano lavorare tutti, anche i
bambini, anche Nelda, che era la secondogenita. Lei, nata nel 1923, andò
"a servizio" in una famiglia benestante del luogo, i Galloni, che
gestivano un laboratorio di camiceria.
Di Abramo Levi, trasferitosi dalla natìa Ancona a
Milano ai primi del Novecento, lo Stato si ricordò nel 1938: le leggi
razziali di quell'anno, la cui infamia è ancora troppo poco
sottolineata, cambiarono la vita della sua famiglia, moglie e otto figli. In
particolare, cambiò la vita di Remo, penultimo dei suoi figli. Egli,
conclusi gli studi liceali e fatto il servizio militare nel 1935 con il grado
di sottotenente, si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. Ma,
alla fine del 1938, capì che lui, ebreo, avvocato non lo sarebbe
diventato mai. Fatta di necessità virtù, diventò
rappresentante di tessuti ed entrò in rapporti d'affari con i Galloni di
Carmignano. Poco dopo scoppiò la guerra che cominciò subito ad
andare male e che nel '43 andava sempre peggio; anche a Milano le bombe
cadevano a grappoli. Remo Levi pensò bene di sfollare chiedendo
ospitalità ad Edgardo Galloni, che l'accolse nella sua casa nell'estate
del 1943.
Per Nelda fu amore a prima vista. E Remo ricambiò
subito, con pari intensità. Testimone d'eccezione di questo legame fu il
grande Peppino Meazza, che aveva sposato la sorella di Galloni. Fu un'estate
indimenticabile per i due innamorati. E poco importava se a Roma non c'era
più Mussolini e, dopo l'8 settembre, nemmeno il Re e Badoglio; la guerra
non era forse finita?
Invece i tedeschi erano sempre più vicini e
pericolosi, tanto che nell'autunno del 1943 il maresciallo dei carabinieri di
Carmignano avvisò il signor Levi che era meglio per lui cambiare aria e
magari anche nome.
Il problema del nome lo risolse la signora Teresina Doria
di Sandrigo, che nel novembre del 1943 fornì a Remo una carta
d'identità in cui il figlio di Abramo Levi si ritrovò ad essere
Remo Giannotta, nato a Bari, figlio dei fu Pasquale e della fu Concetta Di
Giacomo. Chi poteva infatti sospettare che quel giovane dagli occhi e dai
capelli nerissimi e dalla carnagione scura non fosse di origini meridionali?
Del resto, non sarebbero certo stati i tedeschi e i fascisti del nord a
controllare i dati dell'anagrafe di una città del sud in mano agli
angloamericani. Il lavoro della signora Doria fu così perfetto che,
miracoli della burocrazia, al S.Ten. Giannotta Remo del fu Pasquale di Bari
arrivò dal comando militare provinciale di Vicenza sia il documento
attestante che egli era in licenza straordinaria senza assegni, sia l'ordine di
prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana in
piazza Duomo il 30 giugno 1944. Per il cambiamento d'aria ci pensò
l'anima giusta di don Giuseppe Belluzzo, parroco di Carmignano, che si
trovò a dover nascondere non solo un ebreo, ma anche una cattolica,
Nelda, che a nessun costo voleva separarsi dal suo Remo.
Dove trovare di quei tempi un posto sicuro per un ebreo e
una cattolica, per giunta neppure sposati? Ma in una canonica fuori mano,
meglio se sperduta in montagna, naturalmente. Il giorno di Natale 1943 don
Severino Giacomello aggiunse due posti a tavola. Se li era trovati davanti,
Remo Levi e Nelda Donà, con una lettera di don Belluzzo che spiegava al
confratello la vera situazione della coppia.
Don Severino, parroco di Fongara in comune Recoaro Terme,
forse la più povera e sperduta delle parrocchie vicentine, non fece una
piega e sistemò la coppia in canonica. Dopo pochi giorni trovò
loro una stanza in contrada. Poi per qualche mese li perse di vista, anche
perchè i fascisti lo arrestarono con l'accusa di aiutare i partigiani
della zona e lo misero in prigione a S. Biagio. Remo Giannotta Levi non ci
pensò due volte e andò a trovarlo in prigione, riuscendo a
sorprendere anche un parroco come don Giacomello che nel frattempo era stato
addirittura denunciato al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.
Il tempo passava e la mamma di Nelda era disperata
perchè la figlia le era andata via con un ebreo e a poco servivano le
rassicurazioni di don Belluzzo che non poteva certo rivelare il loro
nascondiglio. Così per due o tre volte Nelda e Remo scesero da Fongara
e, in bicicletta, di notte, raggiunsero Carmignano per farsi vedere dai
genitori di Nelda. Ma da dove venivano nemmeno loro lo dissero mai.
A Fongara Remo si integrò così bene con i
paesani che alla sera andava a fare filò nelle stalle della frazione. Dovette
certo affrontare qualche problema, ma lo superò al meglio; il rosario lo
diceva bene e alle litanie dei santi rispondeva sempre e al momento giusto
"ora pro nobis", al punto che molti gli dicevano ammirati "Remo,
te sì proprio un bon cristian". Altro problema nasceva quando gli
offrivano salame, salsicce e sopressa; Remo Levi, a cui la sua religione
vietava la carne di maiale, si inventò una dolorosa ulcera che gli
consentiva di accettare, tra la preoccupata comprensione dei paesani, solo formaggio.
Nelda era incinta di qualche mese quando i soldati
tedeschi di stanza a Valdagno massacrarono nel modo che tutti conoscono i 17
uomini della contrada Borga, situata due km più in basso di Fongara. Era
l'11 giugno 1944, una domenica pomeriggio. Qualche ora prima, in un breve
scontro a fuoco con alcuni partigiani, era stato ucciso un sottufficiale della
marina tedesca, Hermann Gerges, che passava per la contrada insieme con altri
tre commilitoni.
Perpetrato l'eccidio a Borga, la "compagnia
caccia" tedesca salì a Fongara. Nessuno aveva fatto in tempo a
fuggire e ora tutti gli abitanti della contrada erano in ginocchio nel fango,
sotto una pioggia battente. I soldati, dopo aver saccheggiato le povere case,
spararono raffiche di mitra sopra le teste dei paesani terrorizzati e li
lasciarono nel fango per quasi un'ora. Nelda era sicura di morire perchè
sentiva alla tempia il freddo della canna di una Maschinenpistolen.
Guardò disperata il suo Remo inginocchiato accanto a lei. A quel punto,
Remo giocò il tutto per tutto: si alzò e si rivolse deciso
all'ufficiale tedesco: "Camerata – gli disse – io sono fascista - ich habe
gross Papiren"
E gli mostrò la licenza straordinaria di Remo
Giannotta, ufficiale della RSI (il documento gli era arrivato il giorno prima)
con la relativa carta d'identità. L'ufficiale della Wehrmacht, tenente
Stey, controllò le carte con il tradizionale scrupolo teutonico e,
avendo trovato tutto perfettamente in regola, si irrigidì sull'attenti
di fronte al figlio di Abramo Levi e lo autorizzò ad uscire dal gruppo
insieme a Nelda e, quasi scusandosi, gli disse " A me dispiace uccidere.
Io penso alla mia mamma, mi piace tanto ballare con belle ragazze, ma gli
ordini sono ordini". Remo non si lasciò commuovere ma, visto che
c'era, fece alzare anche una famiglia di Vicenza, quella del prof. Sacchi (con
moglie e bambina), di cui era diventato amico.
Poco dopo il tenente Stey, ritenendo forse che per quei
17 italiani innocenti uccisi per vendicare la morte di un soldato tedesco potevano
rappresentare un rapporto accettabile, si limitò a minacciare la stessa
rappresaglia di Borga contro tutte le altre contrade se si fossero verificate
altre uccisioni di soldati germanici. Infine, ordinò ai suoi uomini di
bruciare tutte le case del paese.
Il giorno seguente, Remo scese a Valdagno e vendette il
suo paletot. Con i soldi ricavati, lui e Nelda lasciarono Fongara e si
rifugiarono in provincia di Torino, presso la sorella maggiore di Remo, Bruna
Comai. Alla fine del 1944 nacque la loro primogenita, Miriam-Iliade. In
seguito, arrivarono anche altri figli, Giordano, Renato e Davide. Remo Levi
è morto nel 1994. Nelda Donà Levi vive tuttora a Milano (mia
mamma è mancata il 21 febbraio 2009).
Postilla: il 30 giugno 1944 il sottotenente Remo "Giannotta"
non si presentò in piazza Duomo a Vicenza per il giuramento di
fedeltà alla RSI. Il 3 agosto, però, la sua assenza fu
giustificata dal comandante militare della provincia di Vicenza, colonnello G.
Tombolan Fava, in quanto l'interessato "era momentaneamente a Torino per
ragioni di lavoro", così come gli aveva deferentemente scritto lo
stesso Remo "Giannotta" il 6 luglio 1944. Un lampo di folgorante
ironia nel buio di tempi calamitosi, quando un ebreo milanese poteva esistere
solo come "ufficiale inesistente", ma poteva anche far scattare
sull'attenti un ufficiale tedesco e fare "filò", protetto
dalle anime giuste di una donna e di due parroci vicentini."
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La storia di Fongara ha accompagnato la mia infanzia e
oggi, a distanza di anni, quando mi soffermo a meditare sui nostri destini,
ricordo con chiarezza la voce di papà, rotta dal pianto, che raccontava
nei dettagli quella miracolosa salvezza e il sogno che aveva fatto qualche
notte prima, quando aveva visto la sua cara mamma defunta, che, mordendosi una
mano per l'angoscia, gli faceva segno di scappare. In realtà, la nostra
vita è piena di episodi significativi, di coincidenze strane, di
sogni-segni che ci danno indicazioni su come agire, di fatti che imprimono
delle svolte al nostro cammino. Ma noi siamo sempre in grado di capirli? Se si
vive in modo superficiale, probabilmente no. Se, invece, facciamo tesoro dei
nostri errori e delle nostre esperienze, possiamo raggiungere un grado di
saggezza empirica che ci permette di leggere i fatti per poi prendere delle
decisioni importanti. Del resto, non siamo certo noi che possiamo indagare le
imperscrutabili vie del Signore; accettiamo con amore quello che ci manda e
rimaniamo nell'umiltà mentale di comprendere che tutto ciò che
avviene ha un suo perché.
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Scrivere per me ha un intento etico e didattico. Non sono
un letterato e non ho le capacità e la pretesa di esserlo. Sono
dell'idea, però, che la lettura debba arricchire lo spirito; leggere
significa anche imparare qualcosa dagli altri e non solo riempire il proprio
tempo vuoto. Avrò raggiunto uno scopo se sarò riuscito a
stimolare nel lettore la sua capacità di introspezione e di meraviglia
per le opere del Signore.
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Ho pochi ricordi della mia prima infanzia, trascorsa a
Torino. Ricordo vagamente
Un altro ricordo vago ma significativo, arricchito dalla
ricchezza di particolari che mi ha fornito mia sorella Iliade, è
riferito al morbo del verme solitario che mi debilitò fortemente per
alcuni mesi all'età di 4 anni. Ricordo solo che le mie feci erano sempre
piene di vermi. Dopo aver constatato che i farmaci che mi davano non riuscivano
ad eliminare la tenia intestinale, il medico di famiglia mi somministrò
un medicinale molto forte, che, a suo dire, avrebbe potuto essere anche letale.
Grazie a Dio, funzionò e fui salvo. Ci trasferimmo a Milano nel 1955 e
qui i miei ricordi diventano più netti e distinti.
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A Milano trovammo casa per qualche mese in via Albani.
C'è ancora una foto nella stanza dei genitori che ci ritrae tutti
insieme sorridenti. Le fotografie hanno la virtù di far affiorare
ricordi ed emozioni, sensazioni e odori e quella foto di via Albani si associa
ad una slot machine del bar sotto casa, al sangue della ferita che mi
provocò una scheggia di vetro, penetrata tra le strisce di cuoio dei
sandaletti, agli effluvi che provenivano dallo stabilimento dolciario
dell'Alemagna, situata a qualche metro da noi. Col tempo i nostri ricordi
evaporano ma altri si fossilizzano e rimangono incastonati tra le nicchie della
memoria. Il soggiorno in via Albani fu breve; seguirono i cento giorni in via
Giambellino, in un complesso di stanzoni che ospitava le famiglie numerose di
immigrati che erano in attesa di un alloggio popolare. Erano gli ultimi mesi
del 1956 e ricordo le abbondanti nevicate di gennaio, che per noi bambini erano
una vera pacchia. Com'era bello giocare a pallone nei campi innevati! L'estrema
indigenza che contraddistinse quel periodo della nostra vita non ha avuto
effetti deleteri sulla nostra personalità; anzi, quando si cresce nella
povertà si impara poi a valorizzare quello che si ha. Se un bambino ha
dei genitori che gli inculcano i valori dell'onestà con il loro esempio
personale non c'è timore che diventi un delinquente. In via Giambellino
venne a trovarci più di una volta nostro cugino Renato Comai, che noi
chiamavamo Renato della Ciccia (il nomignolo di zia Bruna, sorella di
papà, che era tutt'altro che grassa), per distinguerlo da mio fratello
Renato. Nostro cugino era molto legato a papà dai tempi della guerra e
il loro rapporto cameratesco annullava i venti anni di età che li
separavano. In quel periodo Renato era a militare con il grado di sottotenente
e papà, in anni successivi, ci ricordava di come ad ogni visita il
nipote amato, da lui definito malach (angelo, in ebraico) gli lasciasse
il suo mensile che tornava utile per tirare avanti.
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Una delle lezioni di vita più importanti che
abbiamo appreso dal Maestro Haim è quella sulla tzedakà,
l'offerta spontanea in denaro che si fa al prossimo. Essa può essere di
tre tipi: di argento, di oro e di diamante. La prima, rispettabile e
apprezzata, va riferita alla tzedakà concessa ad una
comunità o ad un ente pubblico, nella quale a tutti è noto il
nome del benefattore. La seconda, intima e personale, rapporta tra di loro chi
la fa e chi la riceve. La terza, sublime nella sua essenza, arriva al bisognoso
senza che questi ne conosca la provenienza.
In realtà, il termine ebraico tzedakà origina
dalla parola tzedek che significa giustizia. La tzedakà
è un atto indiretto di giustizia, che ripristina una sorta di equilibrio
tra chi possiede e chi non. E' importante però, diceva il Maestro, che
l'atto di generosità venga fatto sempre in modo disinteressato e
convinto.
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L'ingresso nell'alloggio popolare di via Demonte 4
avvenne nell'aprile del 1957. Si trattava di un nuovissimo complesso di dieci
palazzine a 5 piani che dava una sistemazione definitiva ad un centinaio di
famiglie provenienti da ogni parte d'Italia. A noi toccò il secondo
piano della scala B e un appartamento di tre locali, soggiorno, bagno e
cucinino. Ricordo l'immensa gioia della mamma, che per tutto il giorno pianse
per l'emozione. Passava da una stanza all'altra, apriva i rubinetti per
controllare che ci fosse l'acqua, era entusiasta che la casa fosse luminosa e
l'abitato fosse in mezzo al verde. In realtà,
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L'infanzia in via Demonte trascorse serenamente. Ben
presto facemmo amicizia con i nostri coetanei, con i quali giocavamo ore e ore
a pallone, a lippa, a cerbottane, a biglie, a figurine. In estate, poi,
passavamo intere giornate nella nuova piscina comunale Scarioni. In via
Demonte, si giocava a pallone per la strada, perché il passaggio delle
autovetture era raro. Il calcio era lo sport più praticato e spesso la
nostra squadra andava in "trasferta" nella vicina via Ciriè
per fare delle partite che si protraevano per ore e finivano sempre a botte,
dal momento che non c'erano arbitri e le interpretazioni su falli e rigori
erano del tutto arbitrarie. In verità, le scazzottate che costellavano
quelle partite senza fine non erano dolorose ed erano più che altro un
bisogno di affermare la propria virilità; non ricordo, infatti, di aver
mai visto qualcuno piagnucolare o lamentarsi.
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Nell'ottobre 1956 iniziai a frequentare la scuola
elementare. Già in via Albani, papà ci aveva iscritti alla scuola
ebraica di via Eupili, perché voleva che acquisissimo un'istruzione
ebraica. La scuola si trovava in zona Sempione, nei pressi dell'Arco della
Pace, e ogni giorno il pullman della scuola ci prendeva alle sette e mezzo e ci
riportava a casa verso le due e mezzo. Non ho ricordi piacevoli degli anni
trascorsi alle elementari (dalla prima alla quarta). La mia insegnante, Clara
Costa Kopciowsky, era al suo primo anno di insegnamento ed era forse inesperta.
Non mi sono mai integrato nella classe e, anzi, posso dire di esserne rimasto
emarginato. Ero uno scolaro diligente, ma timido e insicuro e partecipavo poco
alle dinamiche interne ed esterne della classe. Alle feste di compleanno dei
compagni non venivo quasi mai invitato, anche perché non c'era chi mi
potesse accompagnare, né papà avrebbe potuto permettersi di darmi
dei soldi per partecipare all'acquisto di regali costosi. E' vero che la scuola
è una palestra di vita in cui il bambino affronta da solo le sue prime
esperienze ed è indubbio che lasci un segno indelebile sulla personalità.
Credo che l'aver sperimentato da bambino il trauma dell'esclusione e
dell'emarginazione, mi abbia poi aiutato a provare empatia e solidarietà
per le persone deboli, infelici e vulnerabili.
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All'inizio della quinta elementare, che si iniziò
nella nuova scuola ebraica di via Sally Mayer, la maestra Kopciowsky decise di
trasferire due suoi allievi, Felicia ed io, alla sezione C, che era una quinta
sperimentale che accoglieva gli scolari problematici e i profughi provenienti
dai paesi arabi e dall'Iran. La nostra insegnante si chiamava Schlumper ed era
sposata con un cugino di papà. L'impatto con la nuova classe fu
estremamente positivo. La maestra era dolce e paziente; i compagni di classe,
quasi tutti in condizioni economiche precarie come le nostre, erano desiderosi
di socializzare e di imparare un buon italiano. Studiavo con buon profitto ed
ero stato anche prescelto per cantare nel coro della Scuola, che si
esibì al teatro Smeraldo per cantare alcune canzoni patriottiche, nel
quadro delle celebrazioni per il primo centenario dell'unità di Italia.
L'anno scolastico si concluse nel migliore dei modi; ottenni la licenza
elementare davanti alla commissione d'esame statale con il massimo dei voti.
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Il 1957 fu per noi un anno fausto, in quanto papà,
trovò casa e lavoro presso la ditta Valentino che produceva e vendeva
impermeabili da lavoro. Papà entrò subito nelle grazie del signor
Valentino, in virtù della sua facondia, del suo savoir faire e
della sua bella presenza. Il lavoro prevedeva una quota fissa e un salario che
veniva conteggiato in base alle provvigioni maturate. Mamma ricordava sempre il
giorno in cui papà aveva firmato il contratto con il signor Valentino ed
era tornato a casa con un pacchetto di banconote, concesse come primo acconto
per far fronte alle spese di rappresentanza. In realtà, non aveva mai
visto tanti soldi in una sola volta. Il lavoro alla Valentino permise a
papà di estinguere ogni mese i buffi che aveva accumulato
firmando delle cambiali che gli avevano permesso di comprare l'arredamento del
nuovo alloggio.
Oggi, a distanza di anni, ripenso con tristezza mista a
commozione a quegli anni di stenti, di sacrifici, di duro lavoro, di viaggi in
treno lungo tutta la penisola che papà dovette affrontare per regalarci
un'esistenza dignitosa. Papà aveva un carattere dolce, amava la famiglia
e il suo lavoro, era di indole generosa e altruista e l'attitudine che aveva
verso il denaro era quella di considerarlo un mezzo da rispettare ma non un
fine a cui votarsi scriteriatamente. "Papà non ci ha mai fatto
mancare niente" ripeteva spesso la mamma, quando lo ricordava con
nostalgia nei nostri colloqui sul balconcino di casa. E, aggiungo io, mai ci ha
fatto pesare il suo sostegno tempestivo e immancabile. Era papà che mi
sganciava qualche deca (come si diceva in quegli anni) quando studiavo al
liceo; era papà che mi pagava i viaggi per e da Israele, quando ero
studente; era papà che mi mandava dei bonifici bancari in Israele,
quando lanciavo degli SOS; fu papà che mi pagò le spese del primo
matrimonio con Liat; era papà che mi pagava l'affitto e le spese per
tirare avanti a Parma, quando eravamo in tre; era papà che mi pagava il
canone di affitto a Concorezzo; era papà che ci pagava la vacanza
all'Hotel Meeting di Zadina di Cesenatico; e potrei continuare con ancora tanti
era papà... E anche mia sorella Iliade e i miei fratelli Giordano e
Renato avrebbero tanti episodi da aggiungere alla lista. E non è che
papà fosse ricco...anzi. Semplicemente, amava aiutarci e lo faceva con
la massima disponibilità e spontaneità. Papà aveva
sperimentato in prima persona la miseria del trovarsi senza una lira e per
questo non esitava a dare una mano a chi ne aveva bisogno. E poi, essendo uomo
di fede, ma non praticante, capiva l'importanza della tzedakà, del
dare disinteressato per aiutare il prossimo.
Nella scala di fronte a noi, ad esempio, abitava Girolamo
Forti, un anziano ebreo veneziano, diventato cieco con l'età, che faceva
l'ambulante, vendendo articoli di merceria e cravatte su un carrettino che
trainava la sua giovane moglie Lina. Girolamo aveva avuto figli da donne
diverse e in via Demonte era diventato padre di Stella e Umberto, che,
crescendo, erano diventati di casa. Nel 1976, poi, Stella avrebbe sposato mio
fratello Giordano. Ebbene, papà, che era a conoscenza delle
difficoltà economiche della famiglia Forti, non lesinava i suoi aiuti e,
puntualmente, mandava loro della carne kasher e dei soldi per fare la
spesa al mercatino comunale.
Papà ci teneva molto alla sua identità
ebraica e, pur non avendo mai visitato lo Stato d'Israele, era un sionista
convinto e fremeva per le sorti dello stato ebraico. Essendo un tipo viscerale
e alle volte irascibile non sopportava le menzogne e i commenti astiosi contro
Israele e quando li sentiva alla radio o li vedeva in tivù si arrabbiava
e inveiva a denti stretti "morto ammazzato...te possino
ammazzà", cosicchè si sentivano solo i sibili prolungati
della zeta e della esse.
A papà, sopravvissuto agli anni della guerra e
dell'odio antisemita, non andava giù che nel mondo ci fossero ancora
così tanti detrattori e odiatori del popolo ebraico. Ma, del resto, lo
considerava come un morbo inevitabile; ed era emblematico un episodio della sua
infanzia in Ancona che era solito raccontarci: aveva 7 o 8 anni e, mentre
giocava a calcio, un compagno gli aveva urlato "Levi, passa il
balò". A quel punto si era avvicinato un vecchio con il bastone
che si era messo a sgridarlo: "Levi? Cosa ssa' da vede'... un abreo che
gioga al balo'. Gnanca da morti ve volemo vede..."
E sempre stato così: finchè ci sono gli
ebrei ci saranno anche gli antisemiti...
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Alla fine degli anni Cinquanta, la via Demonte aveva
cambiato aspetto; dopo i numeri civici 2 e 4 erano stati eretti i complessi del
numero 3 e del 6. Ormai non si poteva più giocare a calcio per strada,
perché il parco macchine si era arricchito di Fiat 500, 600 e 1100.
Papà aveva una Giardinetta di seconda mano con le intelaiature di legno
e nei mesi invernali si formavano delle strane escrescenze, che noi chiamavamo
"i funghetti". Era una macchina un po' scassata e malandata e mia
sorella pregava papà di non andarla a prendere a scuola nel tardo
pomeriggio, perché si vergognava e le sue compagne le ridevano dietro. A
casa era entrata anche la televisione e non dovevamo più andare al bar
di viale Suzzani per vedere "Il musichiere", "Lascia e
raddoppia" o le partite della nazionale. Le serate si passavano davanti
alla scatola in bianco e nero e dopo il telegiornale e il Carosello, io e Renato
andavamo a letto. Venerdì e sabato sera, invece, potevamo stare alzati
"fino a tardi", perché l'indomani non dovevamo alzarci alle
sei e mezzo. Papà aveva comprato anche il frigorifero e non c'era
più bisogno dei blocchi di ghiaccio e la nuova lavatrice risparmiava
alla mamma ore di lavaggi e di risciacqui. Anche il telefono si era installato
a casa e il mitico
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Con il tempo tutto se ne va e tutto si cancella, cantava
nella sua bellissima canzone in francese Leo Ferrè; e, in realtà,
con il tempo i ricordi si offuscano come nebbia novembrina e restano vaghe
immagini sfuocate, che, alle volte, riprendono forma se vengono evocate
insieme, da più persone. Con l'avvento della tivù, così,
molti nostri ricordi personali si associano ad una memoria collettiva e
comunitaria. Gli anni Sessanta hanno rappresentato un periodo di grandi
sconvolgimenti sociali, talvolta epocali. Basti pensare al boom economico in
Italia, alle nuove tendenze nella moda, nella musica, nell'arte, alle
novità nel campo medico e scientifico (l'uomo sulla luna, i primi
trapianti di cuore, l'uso della pillola, per fare solo qualche esempio).
Essendo io cresciuto in una famiglia dai sani e saldi
principi morali, non posso dire di essere stato condizionato da alcune nefaste
mode dei tempi. Così non ho mai partecipato a manifestazioni
studentesche violente e non sono mai andato a sfrenati concerti pop e rock.
Anzi, direi che ho sempre avuto una certa diffidenza e riluttanza verso le mode
giovanili e le aggregazioni di massa, che ripetono a pappagallo slogan e frasi
fatte. Credo che il senso della critica e l'anticonformismo di pensiero debbano
essere delle forme che si manifestano attraverso il linguaggio e il
comportamento individuale. Esattamente come diceva Hillel il Vecchio in una sua
massima: "Laddove non ci sono uomini, fai in modo di esserlo tu"; un
invito questo ad operare con coraggio e ad andare contro corrente quando impera
uno sciatto conformismo.
Tornando alla tivù e ai media, è innegabile
che essi siano riusciti e riescano ad influenzare e a manipolare le masse, che
assorbono passivamente tutto ciò che viene loro propinato, o, al limite,
lo filtrano acriticamente con la loro fede politica. Ciò che più
spaventa nella società di oggi è l'intolleranza e la violenza
ideologica, che tendono ad annichilire e a mortificare ogni forma di
dialettica.
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Una volta all'anno, ad agosto, andavamo in vacanza a
Carmignano di Brenta, ospiti di zio Marino e zia Cornelia, la sorella maggiore
della mamma. Era una vacanza alla buona, che si protraeva per più di tre
settimane, ma che nella nostra memoria collettiva è piena di ricordi e
aneddoti divertenti. Per due anni, arrivammo al paese con
Gli zii ci ospitavano nella loro casetta a due piani, in
via dei Ronchi; i genitori nella stanza di Silvana e Brunetta, le nostre
cugine, che andavano a dormire nella stanza da basso con mia sorella e noi tre
fratelli dormivamo in tre brande posizionate per l'occasione nel solaio, che
era il luogo più caldo e meno aerato della villetta. Zio Marino aveva un
orto ben curato, che produceva pomodori, melanzane, peperoni, fagiolini, carote
e dei vitigni con uva nera framboea. Lo zio sapeva fare anche un buon
vino da tavola, il Clinto, che era leggero e lo potevamo sorseggiare anche noi
bambini. Papà era il primo a complimentarsi e zio Marino, orgogliosamente,
si schermiva "Ah bon, de 'sto vin te pui berne 'na secia chel no te
imbriaga gnanca...(puoi berne un secchio che non ti ubriaca)". Alla
partenza, poi, papà non mancava di portarlo a Milano in una piccola
damigiana.
A pochi passi dalla casa si trovava la barchessa,
in cui venivano depositati gli attrezzi dello zio e le damigiane del vino e,
sul fondo, il cesso, maleodorante e infestato dalle mosche. In ogni stanza
erano appese al soffitto le strisce gialle moschicide, che riducevano in parte
il continuo e molesto ronzare dei ditteri, che erano presenti a nugoli, anche
perché dietro alla barchessa c'era il letamaio per concimare
l'orto e, qualche metro oltre, c'era la stalla dei Chilò, i contadini
vicini di casa, da cui ogni mattina gli zii acquistavano il latte appena munto.
Mio fratello Renato odiava il latte fresco e preferiva mangiare solo biscotti o
pane abbrustolito; a me, invece, piaceva tanto quel liquido denso e caldo che
si mischiava con l'Ovomaltina.
Le giornate di agosto erano calde ed afose, ogni tanto
rinfrescate da qualche acquazzone serale. Noi bambini ci divertivamo un mondo
perché potevamo scorazzare in bici per le stradine di campagna e andare
a trovare i nonni e bagnarci nei fossi incontaminati del paese, alla ricerca
dei marsoni, piccoli pesci che cercavamo, senza molto successo, di
acchiappare dentro dei barattoli di latta. Zio Marino lavorava alla Cartiera di
Carmignano e faceva spesso il turno di notte. Era di poche parole, aveva un
carattere timido e riservato, e andava in collera solo quando giocava a
briscola o a tresette e perdeva, più che altro per l'incompetenza dei
suoi compari di squadra. Lui, infatti, si ricordava tutte le carte che erano
state giocate. Con papà era legato da un profondo legame di amicizia e
da una sorta di soggezione, che, in quegli anni, caratterizzava la gente di
campagna nei confronti della gente di città, considerata più
istruita e di mondo. Ricordo anche mia cugina Silvana, coetanea di mia sorella,
che quando veniva chiamata da papà, rispondeva "comandi!",
tipico automatismo dei veneti di qualche generazione fa, retaggio forse di
tempi in cui era netto il rapporto tra padrone e servitore. Tutt'altro
carattere, invece, aveva zia Cornelia, che era estroversa e vulcanica,
spiritosa e spesso volgare, generosa e sincera, che nei momenti di collera
mandava tutti a quel paese, santi e papa compresi. Mia zia era una donna
piacente e procace, che si vestiva con buon gusto e non disdegnava i gioielli.
A me piaceva molto sentirla parlare nel suo dialetto schietto (come la mamma)
che riascolto ora con tanta nostalgia quando alla tivù si sentono
persone anziane del vicentino o del padovano che parlano con la loro tipica
inflessione regionale.
A Carmignano di Brenta, ai primi anni Sessanta, si accompagnava
con noi nostro cugino Renato, che trovava alloggio a pagamento in una casa
vicina agli zii. Con lui, che aveva una Fiat 850, si poteva andare a fare il
bagno nel fiume Brenta, che in estate diventava un luogo di villeggiatura per
chi non poteva permettersi una vacanza al mare. A ferragosto, festa
dell'Assunta, c'era la sagra in paese e per qualche giorno si allestivano i
tipici giochi del luna park: la pista con gli autoscontri, la giostra con i
"calci in culo", che girava vertigiosamente e dava il premio a chi
riusciva ad afferrare il fiocco teso a mezz'aria, il tiro a segno con i
palloncini colorati, il tira-pugni che misurava la forza del cazzotto sferrato.
E tutto tra un frastuono di voci e di musiche, di strilli e di richiami, coi
ragazzi scamiciati e sudati e le ragazze con le magliette attillate e i capelli
cotonati e con i bambini coi mottarelli e i bastoncini di zucchero filato.
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Mio fratello Renato ed io passammo l'agosto del 1960
nella colonia ebraica della OSE a Riccione. Si trattò della nostra prima
vacanza senza genitori, in una località di mare, in compagnia di una
cinquantina di coetanei provenienti da varie città d'Italia. Papà
ci accompagnò in treno e, al commiato, ci comprò dei giornalini
(il Monello. Tiramolla, l'Intrepido) e trenta cartoline postali vuote,
raccomandandoci di scrivergliene ogni giorno una. Per noi, assuefatti alla
libertà di movimento che ci regalava via Demonte, fu quella
un'esperienza traumatica. In realtà, si trattava di una vacanza di tipo militaresco,
disciplinata da regole ferree, che eravamo obbligati a rispettare, senza
fiatare. Le nostre cartoline postali a casa raccontavano le stesse cose, le
cerimonie dell'alza-bandiera, le lunghe passeggiate in pineta e sulla battigia,
i brevi bagni in mare, che non dovevano superare il cordone teso dai
sorveglianti, i riposi pomeridiani obbligatori, i pasti insipidi a base di
maccheroni e patate, le merende con pane e cioccolato, i soliti giochi in
spiaggia. L'unico ricordo piacevole fu la sfida a pallone contro la vicina
colonia reggiana; fu una partita vera, durata mezz'ora, con tanto pubblico
intorno, che perdemmo
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Il passaggio dall'infanzia all'adolescenza è, a
detta di tutti, un periodo critico in cui si modella la personalità
dell'individuo. Gli ebrei, per tradizione, stabiliscono che al compimento del
tredicesimo anno, il bambino diventa maggiorenne, per cui è responsabile
diretto delle proprie azioni ed entra di diritto nella comunità. Per
questo, lo si festeggia in sinagoga con la cerimonia del bar-mitzvà. La
bambina, invece, raggiunge la maggiorità quando compie i 12 anni. In
realtà, nelle società orientali, i ragazzini di 13 anni sono
più maturi fisicamente dei loro coetanei occidentali. A tredici anni, io
portavo ancora i pantaloncini corti ed ero glabro in viso e non ricordo i turbamenti
di un alto livello di testosterone. Ero anche molto ingenuo a tal punto che non
avevo idea di come venissero al mondo i bambini. Le poche informazioni che
avevo sulla sessualità provenivano dal linguaggio volgare della strada.
A tredici anni, iniziai a frequentare i campi sportivi
della Pirelli, in viale Fulvio Testi, a circa un chilometro da casa nostra. Mi
piaceva fare atletica e su un quaderno registravo i miei progressi nel lancio
del peso, nel salto in alto e in lungo e nella corsa. Come atleta ero davvero
scarso, e le mie fantasticherie olimpiche si infransero subito; dopo che mi
iscrissi ad una corsa sui 1000 metri e dovetti ritirami dopo un giro di pista,
quando mi accorsi che tutti mi avevano superato. Migliore fortuna, invece,
l'ebbi con il calcio, in quanto facevo parte (numero 10) della squadra della
Pirelli, che nel 1963 arrivò in finale nel torneo NAGC di Milano. Fu per
me un'esperienza indimenticabile. La partita fu giocata all'Arena di Milano e
ospite d'onore era Peppino Meazza, che papà rivide e riabbracciò
dopo tanti anni. Disputammo l'incontro contro i pari età dell'Inter che
ci superarono 1-0.
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A scuola, ero un allievo senza infamia e senza lode. La
seconda media, nel 1963, la frequentai insieme a mio fratello Renato, che,
respinto per due anni consecutivi, considerava la scuola come una forma di
supplizio a cui sottoporsi, suo malgrado. In realtà, la nostra classe
mista era un variegato microcosmo di adolescenti inquieti ed indisciplinati,
eterogeneo per età e nazionalità, che veniva a scuola poco
motivato ma disposto a divertirsi, quando c'erano insegnanti che si prestavano
indirettamente al gioco, come il povero professor Hazan, un anziano profugo
egiziano, che insegnava storia ebraica in un italiano stentato, infarcito di
francesismi. In verità, anche i programmi di studio non stimolavano
l'intelligenza e le lezioni di storia, latino e analisi grammaticale erano la
quintessenza della noia e dell'inutilità. Quell'anno, poi, fu funestato
da una disgrazia terribile: la morte in un incidente stradale di un nostro
simpatico compagno di classe, Corrado Friedenthal, nipote del rabbino capo di
Milano. L'anno seguente, mio fratello Renato fu convinto da papà a fare
un biennio per poi iscriversi all'ORT, l'istituto tecnico che indirizzava e
inseriva i giovani nei settori professionali. Io, invece, conseguii la licenza
media e nel
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A 14 anni ebbi, con Renato, anche la mia prima esperienza
di lavoro retribuita. Si trattava di un lavoro semplice, che si protrasse
soltanto per una settimana, durante i giorni della vacanza pasquale e si
svolgeva all'interno dei magazzini Marus di piazzale Cordusio. Il lavoro,
ottenuto grazie a nostro cugino Renato, consisteva nel distribuire, alle due
entrate del negozio di abbigliamento, dei depliant promozionali. Fu qui che
conoscemmo il nostro futuro cognato Gino, che vi lavorava da commesso. Aveva un
fisico asciutto, vestiva molto elegantemente, ma Renato ed io lo trovammo poco
simpatico e un po' spocchioso.
Dopo due o tre settimane ci arrivò con la posta il
compenso che consegnammo orgogliosamente a papà. In piazzale Cordusio si
arrivava con il tram numero 4, che aveva il capolinea all'Ospedale Maggiore. Il
tram era il mezzo di trasporto più usato e noi avevamo a disposizione il
2, il 4 e il 31 per raggiungere il centro di Milano. E' interessante osservare,
attraverso i mezzi di trasporto comunali, come sia cambiata da allora la
popolazione di Milano. Ultimamente, dopo tanti anni, sono salito su un autobus
alla Stazione Centrale e ho avuto modo di constatare come Milano sia diventata
una metropoli multirazziale e poliglotta. Se ritorno con la mente agli anni
Sessanta, era una rarità sentire per la strada un idioma diverso
dall'italiano; oggi, invece, ci sono zone a Milano, dove è vero il
contrario.
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In prima ginnasio ritrovai i miei vecchi compagni delle
elementari, quelli con cui non avevo legato. Avevo solo un amico, Roby Schirer,
che come me era supertifoso del Milan, per cui passavamo molte domeniche a San
Siro per vedere le partite dei rossoneri e le magie di capitan Rivera. L'anno
scolastico andò veramente male e l'impatto con il greco e l'inglese fu
disastroso. Non raggiunsi la sufficienza in ben 5 materie, per cui fui
bocciato. Con il cambio della scolaresca e degli insegnanti, l'anno successivo,
iniziai ad ingranare e fino alla maturità classica posso dire di essere
stato uno studente con un profitto più che sufficiente. Gran parte del
merito del mio cambiamento va ascritto alla mia insegnante di latino e
italiano, la cara Annetta Levi, che tutti ricordano con affetto e nostalgia.
Era un'insegnante di un altro pianeta, per le conoscenze e le nozioni che
possedeva della cultura classica e italiana. Sapeva a memoria interi canti
della Divina Commedia e quando ci interrogava non aveva bisogno dei libri di
testo, perché lei stessa era un'enciclopedia ambulante. Durante il
fascismo era stata picchiata e messa al confino, e dopo la guerra era stata tra
le prime insegnanti della neonata scuola ebraica. Capelli ricci, occhialuta e
strabica, un seno voluminoso che appesantiva il suo incedere a piedi piatti,
Annetta Levi era stata tuttavia compensata da madre natura per le sue
straordinarie doti intellettuali e le sue eccezionali virtù umane.
Attraverso i classici e i letterati, sapeva trasmettere i valori
dell'umanità, della dignità umana, della solidarietà. La
scuola era la sua vita e gli studenti i suoi figli adottivi. Ricordo la sua
felicità quando andammo a trovarla, dopo la maturità, nella sua casetta
ad Erba. Restammo con lei per qualche ora, e, al commiato, ci ringraziò
emozionata. Modesta e riservata, Annetta Levi aveva la rara virtù, in un
insegnante, di rispettare lo studente e di capirne la psicologia. Non alzava
mai la voce, ma riusciva, attraverso il registro della voce, ad imporre il
silenzio e l'attenzione in classe. Dopo la maturità, la rividi, per
l'ultima volta, nel 1983, quando le consegnai in omaggio la traduzione del
libro "Milchamot Hashem", l'importante testo di Yihie Shlomo Elkafah
contro lo Zohar e la falsa kabalah. Ascoltò con attenzione le mie
spiegazioni, mi ringraziò di cuore e disse che l'avrebbe letto con molto
interesse.
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L'attaccamento allo Stato di Israele si rafforzò
nel 1967 con
italiana nel conflitto medio-orientale diventasse
smaccatamente filo-araba. I leader democristiani, Fanfani, Moro, Andreotti,
Rumor, pur dichiarandosi "equidistanti" non nascosero mai una certa
ostilità verso lo Stato degli ebrei, retaggio questo della loro formazione
cattolica ortodossa. A casa, a scuola, in comunità, festeggiamo la
vittoria di Israele con grida di giubilo, canti e balli, lodi al Signore.
Papà ricordava con commozione la frase che aveva sentito in sinagoga
detta da un anziano ebreo del ghetto di Roma: "erano i sei milioni che
spingevano...". In realtà, si trattò di un evento
miracoloso; il popolo uscito dalle ceneri di Auschwitz e portato al macello
come vittima sacrificale, era tornato nella terra dei Padri e si era riscattato
davanti a tutto il mondo. E qui, mi preme aprire una parentesi, che è
attuale anche ai giorni nostri. Il Maestro Haim scuoteva la testa, in segno di
disapprovazione, quando sentiva qualcuno profferire la frase "kol hakavod
leZahal", che significa tutto l'onore vada all'esercito di Israele. Non
che il Morè non portasse rispetto all'esercito israeliano, anzi, ne era
fiero, ma lo disturbava assai il fatto che la lode spettante a Dio soltanto
andasse a degli esseri in carne ed ossa. Israele è in esistenza grazie a
Dio e non grazie ai suoi carri armati o ai suoi aerei. La fede in Dio deve
essere il sustrato delle nostre azioni. L'esercito è un mezzo, la forza
militare non è un fine. Israele continuerà ad esistere se
saprà mantenere i valori amati da Dio, evocati a più riprese da
Mosè e dai Profeti. D'altro canto, il Morè citava spesso anche un
verso del Talmud, che dice "lo lismoh al haness", cioè non
bisogna contare sul miracolo. In altre parole, bisogna darsi da fare, essere
attivi, operosi, produttivi e non aspettarsi favori dal Cielo, assumendo
atteggiamenti fatalistici. Aiutati che il Ciel ti aiuta, si dice da noi.
La guerra dei Sei Giorni influenzò anche noi
giovani ebrei, desiderosi di conoscere da vicino quel paese. Alla fine del
liceo, infatti, la maggior parte della classe se ne andò in Israele e,
al presente, siamo rimasti in sei a viverci (di una quindicina che
partì).
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Una figura di spicco che incise molto sulla nostra
identità ebraica negli anni Sessanta e Settanta fu quella del dottor
Raul Elia, amico e coetaneo di papà, che lo conosceva dagli anni
dell'infanzia trascorsi in Ancona. Raul Elia aveva studiato Medicina e si era
laureato dopo la guerra, ma, praticamente, non l'aveva professata,
perché la distrofia muscolare progressiva che gli aveva minato il fisico,
lo costrinse a vivere immobilizzato dietro alla scrivania del suo studio. Elia
aveva una posizione influente in seno alla comunità ebraica e dal suo
ufficio, per molti anni, diresse il Bollettino della Comunità Ebraica,
un giornalino mensile che seguiva le vicende della comunità ebraica
milanese. Papà, che non aveva avuto un'istruzione ebraica, era molto
legato a Raul Elia e lo considerava il suo mentore in fatto di ebraismo. A
casa, ricordiamo ancora gli interminabili seder di Pesah, che seguimmo
per due o tre anni attraverso le bobine registrate da Raul Elia, che alternava
le disposizioni in italiano con le preghiere in ebraico. Erano ascolti che si
protraevano fino a tardi e papà pensò bene poi di farne a meno,
optando per le letture in italiano.
Da Raul Elia passavamo anche i digiuni di Kippur. Per
fare minian, il quorum di dieci maggiorenni necessari per recitare la
preghiera in pubblico e suonare lo shofar, alla fine del digiuno,
venivamo invitati nell'appartamento di via Teulliè e dalle 14.00 alle 19.00
circa seguivamo la funzione che officiava il solo Elia, che possedeva un'ottima
formazione rabbinica. Nel suo angusto studio, si stipavano una ventina di
uomini e nel salotto attiguo erano sedute le donne. Raul Elia mi aveva
insegnato (anche qui tramite registrazione) a cantare due inni sinagogali e a
leggere il brano della Torà della preghiera vespertina, che tratta le
unioni sessuali proibite, per cui ero coinvolto direttamente nella lettura e
obbligato a seguire l'officiatura.
I digiuni a casa di Elia sono impressi nella nostra
memoria familiare, per cui, annualmente, a Kippur, come flash back
cinematografici, riafforano i piccoli episodi divertenti, le frasi che hanno
fatto epoca, alcuni spezzoni di preghiera, le atmosfere di quei pomeriggi
interminabili, gli aliti pesanti, gli sbadigli, la benedizione che ci impartiva
papà sotto il suo talled, spremendo nervosamente la testa a chi
non stava fermo, il canto liberatorio della neilà, che
annunciava la fine prossima del digiuno, i suoni intermittenti e prolungati
dello shofar, che suonava il cognato di Raul, Halifì, che
compariva verso la fine, dopo essersi fatto una bella dormita ristoratrice, e
le fettine di dolce, distribuite dalla sorella di Raul, Enrichetta, a digiuno
ultimato.
Raul Elia è mancato nel 1983, proprio alla vigilia
del digiuno di Kippur.
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Nel 1968 incominciai anche un periodo di volontariato
all'ANFFAS di Milano, un ente formatosi nel 1966 per tutelare i bambini con
handicap fisici e mentali. Ci andavo una volta alla settimana, la domenica
mattina. Il volontariato consisteva nel fare compagnia e giocare con bambini e
ragazzini cerebrolesi o mongoloidi. Ho un ricordo molto triste di quelle
mattine, dove, per la prima volta, venivo a contatto con le sofferenze e le
difficoltà di linguaggio e di movimento dei disabili. Si trattò
di un'esperienza che mi arricchì nello spirito e mi spinse più
tardi, in Israele, a scegliere un indirizzo di studi che privilegiasse l'assistenza
ai più deboli e sfortunati. All'ANFFAS ricordo una bambina Down di circa
10 anni che si era innamorata di me e mi teneva la mano in forma ossessiva e
manifestava gelosia se mi mettevo a giocare con altri bambini. Per alcuni mesi,
prima di partire per Israele, seguii a casa sua M. un giovane cerebroleso di 15
anni, figlio di un tipografo del Corriere della Sera. Gli incontri avevano lo
scopo di insegnargli a leggere e a scrivere. Si instaurò fra noi un
legame di amicizia e ricordo con commozione la sua letterina che mi arrivò
a Gerusalemme con le sue parole autografe di saluto e di ringraziamento.
L'essere sensibili alle esigenze e alle sofferenze del
prossimo è una dote che si apprende dai genitori e non dai testi
scolastici. Se un bambino ha la fortuna di avere un papà e una mamma che
gli insegnano con l'esempio a non concentrarsi solo sui confini angusti del suo
mondo ma a considerare anche i bisogni degli altri, ne risulterà quasi
sicuramente un individuo con uno spiccato senso civico, altruista e solidale.
Tra gli episodi della mia infanzia mi piace ricordarne
uno, particolarmente significativo, che ebbe come protagonista mia mamma. Avevo
nove o dieci anni. Era una giornata di pioggia battente e, guardando dalla
finestra, la mamma si accorse che, a piccoli passi, bagnato fradicio, procedeva
per la via un nostro anziano vicino di casa. La mamma mi chiamò subito e
mi disse di scendere con l'ombrello per accompagnare il vecchietto fino a casa
sua. Un fatto insignificante in sé, un'azione da boy scout, dirà qualcuno;
in realtà, il fatto che io lo ricordi ancora vivamente a distanza di 50
anni, dimostra che anche un episodio di minima entità può aiutare
a plasmare un tratto di personalità. Fu quella una vera lezione di vita,
in cui una mamma insegnava al figlio il significato della pietà e della
solidarietà umana.
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L'acne che così sovente amareggia l'immagine di
sé di molti adolescenti non ha risparmiato neppure me. Con l'arrivo
della pubertà e le tempeste ormonali che la accompagnano, fanno la
comparsa quei maledetti/benedetti brufoli che riducono il viso fino a ieri
liscio e imberbe in un magma eruttivo di punti rossi, gialli e neri. Dico
maledetti perché abbruttiscono il viso, aumentano la timidezza e
riducono l'autostima ai minimi termini; benedetti perché, favorendo l'isolamento,
acuiscono l'introspezione e la profondità di pensiero dell'adolescente.
Grazie all'acne ho passato molte ore ad ascoltare la musica classica, a leggere
i classici, ad interessarmi di Freud e di psicanalisi, ad approfondire alcuni
argomenti di filosofia e di ebraismo. L'arrivo dell'estate era vissuto come il
miglior antidoto agli inestetismi dei brufoli. L'esposizione al sole e i bagni
di mare avevano effetti benefici sulla pelle del viso, che diventava abbronzato
e rassodato. E, in effetti, i miei primi corteggiamenti e le mie prime
esperienze amorose avvennero nei periodi estivi, trascorsi al mare. A 16 anni,
a Numana, una ragazzina di Roma mi insegnò a baciare alla francese e,
l'anno successivo a Gabicce mare, una ragazza norvegese di nome Liv non
disdegnò le mie eruzioni cutanee, essendo interessata ad altre mie parti
anatomiche.
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In concomitanza con il boom economico italiano, anche le
nostre condizioni economiche migliorarono; papà aveva ingranato bene
alla Valentino e, ogni estate, poteva permettersi di portare tutta la famiglia
al mare, per un mese, in pensioni o alberghi a conduzione familiare,
immancabilmente sulla riviera adriatica: Sottomarina di Chioggia, Lignano
Sabbiadoro (per essere vicini a mio fratello Giordano, che faceva il militare a
Casarsa), Rimini, Numana, Gabicce mare. Erano vacanze divertenti e serene, alle
quali si aggregava nostro cugino Renato e, per un anno, anche i suoi genitori,
zia Bruna (
A casa entravano anche i salari di Iliade, che lavorava
come segretaria alla ditta Mayer e di Giordano, che, abbondanati gli studi
liceali a 15 anni, aveva preferito andare a fare il garzone nella macelleria e
salumeria kasher di Tilo Plaut, un rude e burbero ebreo tedesco settantenne,
dalla faccia da pugile, che aveva spiccati i sensi dell'onestà e
dell'uguaglianza. Plaut non aveva figli ed era sposato con la signora Tilotty,
una distinta ebrea svizzera molto formale e ben educata, che, impiegata alla
cassa, con le sue buone maniere riusciva a smorzare i toni incandescenti del
marito irascibile, che non esitava a mandare al diavolo i clienti ritenuti
troppo esigenti o insistenti. Per mio fratello, gran lavoratore e per questo
stimato dal suo principale, fu quella un'eccezionale palestra di vita e di
lavoro, perché nel negozio di via Poerio imparò molto bene il suo
mestiere. Come ogni negozio di alimentari kasher, anche la macelleria di Plaut
sottostava alla sorveglianza rabbinica della comunità di Milano e nel
1969 entrò in negozio, come mashghiah (sorvegliante rabbinico) un
giovane ebreo ortodosso, dalla folta barba nera, Paul Peretz Green, nato e
cresciuto a Newark, USA, che aveva studiato in una yeshiva (scuola rabbinica)
Lubavitch, prima a New York e poi a Brunoi, in Francia. Per il suo essere Habad
(la setta ebraica che crede che il settimo e ultimo rabbino della dinastia
Lubavitch, Mendel Schnerson, morto nel giugno 1994, sia il messia), a Peretz
Green venne affidata la sorveglianza del negozio dal rabbino Garelik, il capo
dei Lubavitch a Milano, affinchè spiasse e lo informasse sui movimenti e
sulle intenzioni di Plaut, prossimo a ritirarsi.
In quello stesso periodo, Peretz era stato scelto come
allievo primo dal rabbino Haim Wenna, capo dei 36 Giusti Nascosti, di cui
parlerò più avanti. L'incontro voluto dall'Alto e il lavoro sacro
del Morè fecero sì che Peretz uscisse per sempre dalla setta
Habad e iniziasse a studiare e a servire il Morè per 13 anni
consecutivi, fino alla sua dipartita nel giugno del 1982. Grazie all'onestà
di Peretz, che rivelò a mio fratello i piani di Garelik, che intendeva
appropriarsi della macelleria, si arrivò al novembre
1971, quando i coniugi Plaut vendettero la gestione del
negozio a Giordano e andarono a vivere in Israele, a Beit Yitzhak, dove
morirono qualche anno dopo.
L'incontro e l'amicizia fra Giordano e Peretz
segnerà un punto cardinale nella vita della nostra famiglia.
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Nell'inverno del 1969 Iliade lasciò la casa di via
Demonte 4 perché si unì in matrimonio con Gino. La cerimonia
venne celebrata al Comune di Milano dal sindaco Aldo Aniasi. Gli sposi andarono
ad abitare a Sesto San Giovanni in un appartamento spazioso, che ospitava anche
Tullo, il papà di Gino.
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Alla fine degli anni Sessanta, si concluse finalmente la
pratica di conversione all'ebraismo della mamma, che era iniziata nel 1962,
sotto la reggenza del rabbino Bonfil. Costui, molto ligio all'ortodossia, aveva
condizionato la richiesta della mamma ad una conoscenza molto esauriente delle
halachot (le regole ebraiche da osservare), per cui le aveva dato un libro
voluminoso da portare a casa e studiare. Una volta studiato, le disse, si
sarebbe potuta presentare all'esame finale di conversione, davanti ad una
commissione rabbinica. La mamma tornò a casa da quell'incontro col rabbino
alquanto scorata e amareggiata. Perché i rabbini le ponevano così
tanti ostacoli? Non era bastato che avesse seguito papà, braccato dai
nazisti, dividendo con lui la stessa sorte? E che i suoi tre figli avessero
fatto la circoncisione e studiassero nella scuola ebraica? E che a casa si
osservassero le regole alimentari ebraiche, si celebrassero le feste in
sinagoga, si digiunasse di Kippur, si mangiasse il pane azzimo a Pesach, ci
fosse la mezuzah in evidenza sullo stipite della porta di casa, si accendessero
i lumi del sabato e della festa di Hannukah? E che tutti nel nostro rione
sapevano che eravamo ebrei? Come avrebbe potuto lei, con un'istruzione di
seconda elementare, inoltrarsi in uno studio così complicato e
memorizzare tutte quelle norme rabbiniche? No, purtroppo, non ce l'avrebbe
fatta, neanche con il nostro aiuto. Quando io, invece, cercavo di convincerla a
studiare e le leggevo qualche halachà, lei mi interrompeva, stizzita, e
in dialetto mi diceva "Va'eà, va'eà, caro, cossa vuto che me
ricorda tutte que'e regoe...". Fortuna volle che Bonfil andò a
vivere in Israele e lasciò la cattedra rabbinica di Milano nel 1966 e
con l'avvento del rabbino David Schaumann, che noi conoscevamo bene
perché era stato anche il preside della scuola ebraica per più di
un decennio, la pratica di conversione fu alquanto sbrigativa. Dopo il bagno
rituale, alla presenza della moglie del Morè, la signora Mazal, di
benedetta memoria, che le fece dire la benedizione di circostanza, una
commissione di tre rabbini, presediuta da Schaumann, dopo un esame facilitato,
stabilì che la mamma era ebrea a tutti gli effetti. Si chiudeva
così una pagina, che per noi fratelli ha sempre rappresentato un aspetto
criticabile della religione ebraica, quando viene interpretata secondo i canoni
dell'ortodossia. Criticabile, perché in comunità si
continuò a dire che noi non eravamo ebrei secondo la halachà, e i
fratelli che gestivano la macelleria, per anni dovettero subire soprusi e torti
da parte di persone, che sotto la parvenza di un ebraismo ortodosso, si
macchiarono del peccato infamante di lashon ha-rà (maldicenza).
Non sono pochi i correligionari che pur di osservare i dettagli di una
halachà non esitano a infrangere dei divieti molto più
importanti. "Medakdekìm bekriat Echà umezalzelìm
bekriat Shemà" (sono molto rigorosi nella lettura del libro di
Echà – che si legge durante il digiuno di Tishabeav e non è di
grande rilevanza – e non si curano della lettura dello Shemà – che
è la preghiera cardinale dell'ebraismo che si legge giornalmente-)
è scritto nel Talmud a proposito dei bigotti che pur di seguire alla
lettera i dettami religiosi perdono di vista i principi fondamentali della
Torah. E a tale proposito, vorrei ricordare un episodio significativo avvenuto
nel Kippur del 1982. All'epoca, era rabbino capo a Milano il signor Giuseppe
Laras.
In quell'occasione, Peretz ed io fummo invitati ad
officiare la preghiera nell'oratorio di via Jommelli. Alla fine della preghiera
mattutina, si presentò un certo signor Heger, studente israeliano di
Medicina a Milano, e, in veste di shaliach (inviato) del rabbino Laras,
dichiarò ai presenti che io non potevo alzarmi a Sefer come
levita, in quanto gher (convertito). Il pubblico rimase allibito e
Peretz, indegnato da quell'ingerenza improvvisa e fuori luogo, si tolse
teatralmente il manto di preghiera e scese dalla tevà (il luogo
rialzato in cui si officia) e se ne andò via. Io lo seguii. L'inviato di
Laras portò avanti la preghiera. Il giorno seguente, Peretz scrisse una
lettera ispirata a Laras, in cui gli spiegava che l'alzarsi a Sefer come Cohen
o Levi è una consuetudine rabbinica (minhag midrabanan) invalsa
nel tempo e che oggi non ha senso indagare sulle genealogie dei correligionari;
se i figli del signor Remo Levi (Giordano, Renato e Davide) si erano sempre
alzati a Sefer come leviti non aveva alcun senso far cessare una tradizione
comunitaria consolidata. Il peccato più grave, scrisse Peretz, era che
il rabbino Laras aveva infranto pubblicamente un divieto ben più severo,
scritto nella Torah (e quindi midoraita), che è quello di non
svergognare e mortificare pubblicamente una persona (
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Il 1970 fu per me un anno storico. Dopo aver conseguito a
giugno la maturità classica, cominciai a fare le pratiche all'Agenzia
Ebraica (Sochnut) di Milano per andare a studiare in Israele. L'addetto
della Sochnut che si occupò della mia pratica era un giovane e
atletico ragazzo israeliano, Zvi Dafna, che mi fissò il viaggio di
partenza dal porto di Marghera, per il 2 agosto, sulla nave israeliana
"Nili". Una volta approdato al porto di Haifa il 6 agosto mi
avrebbero condotto all'Università di Bar Ilan, dove avrei iniziato l'ulpan
(il corso intensivo di ebraico per nuovi immigrati). Zvi mi assicurò che
il biglietto della nave, il corso di lingua e l'alloggio nelle case studenti
dell'università erano a carico dello Stato d'Israele.
I preparativi per la partenza furono brevi e concitati.
Andai in Questura a fare il passaporto e papà mi portò in banca e
mi procurò un libretto di travellers cheques di 1000 dollari, per far
fronte alle prime spese. La mamma si prese cura della valigia e la
riempì di asciugamani, magliette, camicie e pantaloni ben stirati. In
realtà, mi accingevo a intraprendere un percorso del tutto nuovo e
sconosciuto, ignaro del futuro ma pronto a nuove esperienze. E qui sorge
spontaneo ma d'obbligo l'interrogativo che ho sentito decine di volte, sia in
Italia che in Israele: perché hai deciso di andare a vivere in Israele?
Innanzi tutto, non si trattò di una decisione, ma di un tentativo di
provare qualcosa di nuovo, in cui potessi rapportarmi con la realtà da
solo. Secondo, a vent'anni sentii impellente l'esigenza di uscire dalla
bambagia protettiva dei miei cari; lasciare casa era un modo diverso per poter
maturare. Ci sono figli che lo fanno in modo conflittuale; ma io, mansueto di
carattere, preferii farlo con la benedizione dei genitori, che non frapposero
ostacolo alcuno. Terzo, è una considerazione che posso fare oggi a 60
anni: volenti o nolenti, è Dio che ci posiziona nel mondo. Concetto
questo che non limita la nostra facoltà di scelta, in quanto siamo
esseri dotati di libero arbitrio e veniamo giudicati in base alle nostre
azioni, ma afferma la presenza e l'intervento di Dio nell'universo. Hakol
me-et HaShem, dicono gli ebrei, Kullu min Allah, dicono i
musulmani. Non cade foglia che Dio non voglia, dice il nostro proverbio. Io,
personalmente, non me lo sono mai chiesto. Se Dio ha voluto che vivessi in
Israele ci sarà una ragione, che io non conosco. Le decisioni del
Signore sono imperscrutabili e se vogliamo scandagliarle bisogna farlo solo a
fini di studio o di autocritica, rimanendo in una condizione di umiltà
di pensiero assoluta. Chi siamo noi per poter conoscere o sindacare l'operato
del Signore Santo?
E a chi mi chiede se sono andato a vivere in Israele per
motivi ideologici, rispondo sì e no. Sì, perché, dopo
secoli di persecuzioni, ritengo che gli ebrei debbano avere uno stato in cui
vivere, un paese che affonda le sue radici in una storia millenaria, iniziata
con un patto fra Dio ed Abramo.
No, perché non credo nell'ideologia del fanatismo
clericale ed etnocentrico, che afferma che la terra spetti al popolo d'Israele
per grazia ricevuta. La grazia di Dio bisogna meritarsela attraverso le buone
azioni, l'osservanza dei precetti e il rispetto degli altri e non basandosi su
ciò che è scritto nei testi sacri.
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La partenza per Israele avvenne il 2 agosto 1970. La
mattina fu piena di raccomandazioni, di esortazioni, di abbracci e baci.
Papà e mamma mi diedero la benedizione e mi accompagnarono con lo
sguardo fino a che scomparve la sagoma della 500 di Giordano, che mi
accompagnò a Venezia, con la sua prima moglie Maria Rosa (un matrimonio
che sarebbe naufragato qualche mese dopo). Arrivammo al porto di Marghera nel
primo pomeriggio e la "Nili" della compagnia israeliana Zim salpò
alle 18.00. Mi fu assegnata una cabina con letto a castello. Sopra di me,
dormiva un signore sulla trentina, di cui ricordo il cognome, Levi, che
viaggiava per affari. Era un tipo loquace, brutto fisicamente, che si vantava
continuamente delle sue conquiste femminili e, per darne prova, mi mostrava dei
preservativi, che teneva pronti in tasca. I miei tentativi di evitarlo spesso
fallivano perché a bordo c'erano gruppi affiatati di argentini e
uruguayani, in procinto di fare l'aliyah e famiglie israeliane con
bambini, per cui risultava alquanto arduo attaccare bottone con qualcuno. La
maggior parte della giornata la passavo in piscina, un rettangolo di acqua di
minime dimensioni, in cui sguazzavano frotte di bambini scatenati. Avevo
portato con me anche un libro di testo Elef milim (1000 parole), che
ripassavo per apprendere le prime nozioni d'ebraico moderno, che potevo
leggere, ma non parlare e capire.
La notte del 5 agosto avvistammo le luci della
città di Haifa. Il capitano informò i passeggeri che l'entrata in
porto sarebbe avvenuta nelle prime ore della mattina. La notte la passai in
bianco, un po' per l'eccitazione, un po' perché gli olim
sudamericani fecero baldoria, con canti e balli. In effetti, all'alba, i motori
della nave ripresero a funzionare e l'entrata in porto avvenne verso le 7.00 di
mattina. Era una giornata molto calda e afosa. Ben presto mi resi conto che il
mio elegante completo beige di cotone e la camicia a maniche lunghe stridevano
sotto il solleone israeliano. Una volta sceso a terra, rimasi esterefatto dalla
confusione, dal disordine, dalla sporcizia, dal vociare sguaiato dei portuali
sudati e scamiciati, che andavano avanti e indietro. L'impatto con
Arrivato nell'ufficio del segretario, finalmente potei
parlare in italiano. Costui, di cognome De Benedetti, mi spiegò in breve
che il mio soggiorno in kibbutz sarebbe durato un mese circa; in cambio di
vitto, alloggio e ulpan, avrei dovuto essere utile alla
collettività, raccogliendo le pere all'alba e lavorando nel refettorio.
Mi accompagnò quindi nella camerata degli ospiti, dove alloggiava una
cinquantina di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo. E qui conobbi
Victor Sillam, un mio coetaneo francese, di Marsiglia, di origini tunisine, che
mi aiutò a portare la valigia all'interno della camerata, dandomi per
primo il benvenuto. Victor è a tutt'oggi uno dei miei più
carissimi amici. E di lui avrò modo di parlare più avanti. Il
clima torrido, le zanzare nella notte che non mi fecero chiudere occhio e,
soprattutto, la levataccia alle 5.00 di mattina per andare nei frutteti a
raccogliere le pere, fecero sì che il mio iniziale entusiasmo si
azzerasse dopo soli tre giorni. Al quarto giorno, infatti, salutai Victor e mi
defilai con l'autobus della mattina che partiva per Tel Aviv.
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A Tel Aviv arrivai il 10 agosto e fui ospite della mia
compagna di classe Bianca Moreno, che abitava nel viale centrale Keren Kayemet.
Con Bianca abitavano anche la sorella Anita e un'altra compagna di classe,
Tania Sachs, la futura mitica portavoce di Vasco Rossi, che era venuta in
vacanza ma non intendeva fermarsi oltre. Tel Aviv era già nei primi anni
Settanta una città frenetica, dinamica, caotica, aperta alle mode e alle
tendenze in voga negli USA e nell'occidente. Ricordo che rimasi sconcertato nel
vedere alla vecchia tahanà merkazit (stazione degli autobus)
un'edicola underground che vendeva riviste pornografiche. Ben presto mi resi
conto che all'interno della società israeliana vivevano e si scontravano
molteplici realtà, in uno straordinario e variegato mosaico fatto di
laici, agnostici, atei, religiosi ortodossi ed eterodossi, socialisti,
socialdemocratici, comunisti, nazionalisti, liberali, polacchi, marocchini,
rumeni, yemeniti, tedeschi, bulgari, iracheni. Una versione moderna delle 12
tribù di Giacobbe.
Con le mie amiche andavo quasi ogni giorno alla spiaggia
di Tel Aviv, che nel 1970 si presentava come un'accozzaglia disordinata di
bambini, giovani e adulti, pigiati in pochi metri quadrati, in un frastuono
incessante di voci e grida umane, di palline scagliate a tutta forza da
racchette di legno (matkot), di musiche provenienti a pieno volume dalle
radioline; con la sabbia scottante, pregna di macchie di nafta e sporca di
pannocchie sgranocchiate di mais, avanzi di cocomeri e mozziconi di sigarette.
Lontano dalla cucina ordinata, prelibata e impareggiabile
della mamma, imparai qui a conoscere gli hot dog con la senape, le pitot (panini
piatti) con dentro i falafel (polpettine di ceci) e le verdure
all'orientale, il humus e la tehina, una salsa a base di sesamo,
che qualche anno più tardi il mio sistema immunitario avrebbe rifiutato
perentoriamente, perché causa di allergia.
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Il 17 agosto decisi di andare all'università Bar
Ilan per seguire gli sviluppi della mia pratica. Quando arrivai alla segreteria
e mi presentai, la segretaria scartabellò qualche foglio e mi disse
dispiaciuta che il mio nome non compariva nella lista di 4 nomi spedita da
Milano. Rimasi una volta ancora mortificato: com'era possibile che Jacky, Donia,
Sandra e Noemi ci fossero e io no?
Tornando a Tel Aviv, entrai in un ufficio postale con
annesse le cabine telefoniche per le chiamate internazionali e telefonai a
papà. Gli spiegai che la mia pratica non era stata inoltrata e che sarei
tornato a Milano per fine mese. Papà ne fu dispiaciuto ma mi
rincuorò e mi disse che mi avrebbe accompagnato da Zvi per dirgliene
quattro.
Due lezioni fondamentali che abbiamo appreso più
volte dalla bocca del Morè e che sono diventate parte integrante della
nostra filosofia di vita sono incentrate su due sentenze del Talmud: kol
akabà letovà (= ogni dilazione è a fin di bene) e gam
zu letovà (anche ciò è a fin di bene). In altre
parole, i contrattempi, gli impedimenti e gli eventi inaspettati, che al
momento ci sconcertano o ci fanno andare in bestia, vanno considerati poi a
mente fredda, perché possono rivelarsi favorevoli. E, infatti, fu
così.
Nelle due settimane che rimasero prima della ripartenza,
feci la conoscenza con una liceale ebrea francese, Martine Bensussan, che non
disdegnò affatto i miei corteggiamenti e mi invitò a casa sua a
Parigi, a settembre o ad ottobre.
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Il ritorno in Italia avvenne in aereo. Si trattò
del mio primo viaggio aereo, che affrontai con coraggio ed entusiasmo. In quel
periodo, non c'erano voli diretti per Milano, per cui atterrai a Roma e quindi
a Linate. In famiglia mi riabbracciarono felici e, dopo qualche giorno, pensai
di iscrivermi a Medicina alla Statale.
Papà mantenne la promessa fatta e, ai primi di
settembre, mi accompagnò alla Sochnut per denunciare
l'incompetenza del signor Dafna, che, appena mi vide, cadde dalle nuvole,
sicuro che fossi in Israele e mi assicurò che lui aveva inoltrato la
pratica, facendocene vedere le copie. Il disguido era avvenuto in Israele e lui
asseriva di aver svolto il suo compito nel miglior modo possibile. E a comprova
della sua buona fede, ci promise che mi avrebbe iscritto la settimana stessa
all'Università Ebraica di Gerusalemme (e non alla Bar Ilan) e
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In attesa di ripartire per Israele, accettai l'invito di
Martine e, a metà ottobre, andai a trovarla a Parigi per una settimana.
Alla Centrale presi il treno delle 22.00 e viaggiai tutta la notte, arrivando
alla Gare de Lyon alle 7.00 di mattina. La mia amica mi aspettava tra la folla
e appena mi vide mi venne incontro, mi abbracciò forte e mi baciò
sulla bocca, con un trasporto amoroso inaspettato. Uscimmo dalla stazione sotto
la pioggia e prendemmo la metropolitana per l'undicesimo rione. Era questa la
mia prima volta a Parigi, una metropoli che trovai subito affascinante e
grandiosa. Martine, che era orfana di madre, viveva in un piccolo appartamento
con suo papà e un fratello più grande. Quando arrivammo a casa,
mi preparò la colazione e mi invitò a sentirmi a mio agio. Lei mi
parlava in francese e io le rispondevo in un lingua che mescolava parole di
italiano, francese e inglese. Dal momento che eravamo soli, mi fece intendere
che avrebbe gradito lasciarsi andare a baci ed effusioni amorose. La cosa non
mi dispiacque e lei ebbe l'accortezza di usare la precauzioni del caso.
Martine fu per me un ottima guida, perché nella
settimana del mio soggiorno mi portò in giro per la città e mi
fece vedere i luoghi caratteristici della metropoli.
Al commiato alla stazione, mi promise che sarebbe venuta
in Israele a trovarmi. Mi disse anche che mi avrebbe scritto in francese e io le
promisi di risponderle in italiano. Ma, è risaputo, le promesse sono una
cosa e la realtà un'altra. Il nostro carteggio epistolare durò
pochi mesi e cessò di esistere, quando io le scrissi, con tutta
onestà, di avere un'altra compagna. Martine, tuttavia, mantenne la sua
promessa e, l'anno seguente, venne a farmi visita a Gerusalemme e mi
confessò di volermi ancora bene.
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Arrivò il fatidico 2 novembre. Questa volta il
distacco dai genitori fu più sentito. Papà e mamma capirono che
questa esperienza si sarebbe protratta per anni e fu profeta la zia Bruna che
previde che in Israele avrei messo su famiglia e non sarei più tornato a
vivere a Milano. La scena dei saluti e dei commiati si è ripetuta
infinite volte (non ho tenuto il conto dei viaggi Italia-Israele), ma, sempre,
nelle attese all'aeroporto, prima del decollo, ho pensato che il proverbio
"partire e un po' come morire" racchiude una sacrosanta verità
e non è un caso che i commiati si accompagnano al magone e agli occhi
lucidi. L'ultimo saluto a papà lo diedi la mattina del 17 aprile 1994
(la morte avvenne il 2 giugno). Papà, come di consuetudine, si fece
portare il talled dalla mamma e seduto nella sua sedia di vimini, mi
benedisse, mentre io, inginocchiato, sentivo il suo corpo e le sue mani
agitarsi e tremare per il Parkinson. Dopo con la mano sinistra si
asciugò con il fazzoletto la bava e mi augurò di fare buon
viaggio. Ho impressa nella mente l'espressione ultima di papà: lo
sguardo fisso e poco espressivo, il senso di impotenza e di rassegnazione,
rivelato dal capo reclino e dal corpo abbandonato a se stesso, privo di energie
e di difese. Se lasciai papà molto malato ma lucido di mente non fu
altrettanto con la mamma, che rividi per l'ultima volta il 28 dicembre 2008
(morì il 21 febbraio 2009), quando era ricoverata all'ospedale di Carate
Brianza e ormai il suo linguaggio e la sua comprensione erano compromessi
irrimediabilmente dopo i ripetuti ictus. Anche qui riaffora l'immagine di una
vecchina rassegnata, priva di forze, in balìa delle volontà
altrui; la mamma seduta nella sedia a rotelle, che si osserva le mani e leva lo
sguardo inespressivo che si perde nel vuoto, sullo sfondo solenne delle Prealpi
innevate. Prima di lasciarla, in quella fredda mattina d'inverno, la salutai,
le baciai la fronte e, inginocchiandomi, le baciai le mani che misi sulla mia
testa, chiedendomi di benedirmi. Restai così per qualche secondo, mi
alzai e le dissi shalom mamma, presagendo che quello sarebbe stato
l'ultimo saluto. Lei mi osservò e mi disse ciao. Quando era lucida, la
mamma soffriva molto le mie partenze e si commuoveva; allora le dicevo in
dialetto non sta' a criare se no te me fe criare anca a mì
che aveva l'effetto di farla sorridere, cosicchè la tristezza del
commiato si stemperava in una risatina. Resta il fatto, comunque, che anch'io
scendevo le scale di casa con il groppo alla gola.
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A Gerusalemme arrivai nel tardo pomeriggio, in una bella
giornata di sole. Al minhal hastudentim (l'ente preposto alla
sistemazione degli studenti) mi consegnarono le chiavi dello tzrif, la
casetta che ospitava 5 studenti, e della stanza, che avrei condiviso con un
ragazzo turco di nome Shmuel. Il complesso di casette per studenti si trovava
sul monte Scopus, che, passato in mani israeliane dopo la guerra del 1967, era
un cantiere a cielo aperto, perché si stava costruendo la sede nord
dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Le casette per gli studenti
erano circondate da tappeti d'erba e da stendibiancheria a raggiera e c'erano
anche un piccolo negozio di alimentari (makolet) e un campo sportivo,
dove si poteva giocare a pallacanestro e a calcetto. Le abitazioni erano in
asbesto (da qui il nome del complesso, hasbestonim), un materiale, che
qualche anno dopo sarebbe stato messo all'indice per la sua elevata
tossicità. Ogni casetta aveva tre stanze, un cucinino, un bagno e una
doccia. Le stanze erano piccole, fornite di un letto, un tavolino, una sedia,
un armadio, uno scaffale e una stufetta a nafta, che si teneva accesa nei mesi
invernali, relativamente rigidi a Gerusalemme.
Il mio compagno di stanza, turco di Istanbul, era un
ragazzone alto e corpulento, dalla risata grassa e contagiosa, che aveva
tapezzato la parete coi colori giallo rossi della sua squadra del cuore, il
Galatasaray. Parlava già l'ebraico ed era iscritto al primo anno di
Economia. Nei primi mesi, parlai con lui in italiano, che riusciva a capire,
dal momento che conosceva molto bene il ladino, la lingua che continuarono a
parlare gli ebrei espulsi nel 1492 da Spagna e Portogallo nei paesi che li
accolsero, Turchia, Jugoslavia, Grecia e Bulgaria. Gli altri coinquilini erano
due studenti israeliani, che i fine settimana tornavano a casa loro e un
ragazzo americano hippy, Mitchell, che occupava la stanza singola e ascoltava
in modo ossessivo le cassette del festival di Woodstock. L'inverno del 1970 fu
particolarmente piovoso e a febbraio cadde due volte la neve. Hasbestonim
ospitava studenti ebrei provenienti da ogni parte del mondo; oltre a me,
c'erano anche tre ragazze italiane: Laura da Padova, Mirella da Trieste e
Miriam da Roma. A casa scrivevo una volta alla settimana e telefonavo sovente
dalla posta di via Yaffo, raccontando con entusiasmo le mie esperienze.
Settimanalmente, arrivava puntuale l'espresso di papà, spedito da
Chiasso, con i ritagli della Gazzetta dello Sport. Papà aveva deciso di
imbucare a Chiasso, dal momento che le prime lettere, spedite da Milano, mi
erano arrivate dopo 3 o 4 settimane. Papà era solito raccontare che al
valico di frontiera di Como, le prime volte i doganieri lo fermavano e gli
controllavano la borsa, sospettando che esportasse della valuta in Svizzera.
L'atmosfera spensierata e libera di Hasbestonim favorì i flirt tra i
giovani residenti; si trattava di amorazzi tanto impetuosi quanto fatui che si
accendevano tra le musiche assordanti della piccola discoteca che si apriva il
venerdì sera e si spegnevano dopo qualche giorno. Ben presto si
formarono compagnie di amici, che avevano nella lingua madre (inglese,
francese, spagnolo, turco) l'elemento collante. Io fui più attratto dal
gruppo di francofoni e, frequentandoli, imparai a parlare il francese. Ad
Hasbestonim ritrovai Victor, conosciuto al kibbutz di Ruhama, e col tempo
diventammo amici fraterni. Ai primi di gennaio, cominciai ad uscire con
Claudette, una ragazza marocchina di Meknes, che viveva nella casetta accanto
con la sorella Eva, e tre ragazze turche, Rivka, Ester e Josette. Fu lei il mio
primo vero amore. Claudette era di carnagione scura, aveva gli occhi verdi e i
capelli castani, le labbra carnose e i denti bianchi, un corpo slanciato e un
seno ben modellato. Era la prima di cinque figli e con la famiglia era
immigrata in Israele nel 1969. All'università si era iscritta a Lettere
Francesi e, dopo avermi conosciuto, aveva optato anche per
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La settimana del mio arrivo, cominciai a frequentare la mehinà,
l'anno preparatorio organizzato dall'Università Ebraica di Gerusalemme
per gli studenti stranieri neo-immigrati o residenti temporanei (come me). La
mehinà prevedeva l'ulpan di ebraico e lo studio della storia di
Israele. Si cominciava alle 9.00 e si finiva alle 16.00. Le lezioni si tenevano
a Salisiana, a pochi passi dalla Città Vecchia, in un edificio, che, in
passato, aveva ospitato una scuola di seminaristi salesiani, con la sua
caratteristica architettura rettangolare ad archi e colonnati e lo spiazzo
centrale, tipica dei chiostri. Per arrivare a Salisiana si prendeva uno
sgangherato e vecchio autobus di linea arabo, della precedente gestione
giordana, che aveva il capolinea a Shaar Yaffo,
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Ho già messo in rilievo l'atmosfera di
libertà sessuale che regnava all'inizio degli anni Settanta
nell'ambiente studentesco; i giovani israeliani erano attratti dai modelli
americani (promiscuità e amore libero, uso e abuso di droghe e di
alcolici, musica rock e psichedelica, abbigliamento trasandato, capelli lunghi,
messa in discussione dei valori etici accettati consensualmente). Io,
personalmente, ho sempre diffidato delle mode, delle ideologie e degli idoli
venerati dalle masse; resta il fatto, tuttavia, che anch'io ero influenzato da
quelle nuove tendenze, perché mi ero fatto crescere i capelli, indossavo
i jeans, mi scatenavo nelle discoteche e non ero affatto un certosino. Credo
che questo clima collettivo di vita sregolata e gaudente, unito all'euforica onnipotenza
nei propri mezzi militari abbiano fatto dimenticare ad Israele il proprio patto
con il Signore, che quando deve punire le sue creature lo fa con la legge del
contrappasso (midà keneghed midà) e nell'ottobre del
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Il 2 aprile
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Tornato in Israele, iniziai gli studi di Social Work
all'Università di Ghivat Ram. Mi fu data una stanza, che condivisi con
Victor, nella sede di Monte Scopus (Har Hazofim), un nuovo complesso di venti
palazzine, che ospitava più di 400 studenti, molti dei quali provenienti
dall'estero. Claudette abitava al piano superiore, insieme a sua sorella Eva,
cosicchè il nostro rapporto divenne stabile, dal momento che ci vedevamo
ogni giorno. Ormai eravamo considerati una coppia a tutti gli effetti e ben
presto venni invitato a casa sua, a Zahala, vicino a Tel Aviv, per passare il
sabato. I genitori di Claudette, ebrei marocchini tradizionali, non gradivano
che la figlia vivesse more uxorio con il proprio compagno; a casa loro
mi accolsero come un figlio, ma la madre Henriette, dopo due o tre visite, mi
domandò chiaramente se le mie intenzioni fossero serie. Si
tranquillizzò quando le risposi che volevo bene a Claudette e che
l'avrei sposata dopo gli studi.
Ad Har Hazofim facevo ormai parte di una compagnia di
venti ragazzi, per lo più francofoni, spensierata e godereccia, che
amava andare al cinema, in discoteca, ai fast food, a passeggio per le strade
del centro e della Città Vecchia.
Gli studi, all'inizio, procedevano con qualche
difficoltà, dal momento che riuscivo a capire circa la metà delle
lezioni in ebraico e nei seminari di gruppo mi esprimevo con un lessico
alquanto limitato. Ricordo che il primo esame, in Sociologia, lo scrissi in
italiano e un assistente di origine argentina me lo controllò.
Fortunatamente, c'erano delle studentesse che mi aiutavano con i loro appunti
riassuntivi e, al termine del primo anno, riuscii a dare tutti gli esami,
tranne Statistica e Scienze Politiche.
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Il secondo anno accademico, novembre 1972 - giugno 1973,
andò molto meglio del primo. Ormai padroneggiavo l'ebraico e riuscivo
anche ad esprimermi in francese e in inglese. Continuavano i contatti
epistolari e telefonici con Milano, e la novità era che Renato si era
associato a Giordano nel lavoro e nella gestione della macelleria. In
realtà, Renato imparò bene e velocemente il mestiere e
subentrò al dipendente precedente di Plaut, il signor Sander, che si era
ritirato per raggiunti limiti di età e anche perché malato di
Parkinson. Il nuovo mashghiah, stipendiato dalla Comunità di
Milano, era Yehoshua Elharar, un rabbino di origini marocchine, che aveva
studiato a New York in una yeshiva Lubavitch. Il lavoro aveva cominciato
ad ingranare e dopo che il proprietario delle mura del negozio, Adolfo Zippel,
legato al rabbino Garelik, si era reso conto che non sarebbe riuscito ad
impadronirsi della gestione della macelleria mandando via Giordano, benvoluto
da Tilo Plaut e sostenuto anche dal presidente della comunità ebraica di
Milano, ingegner Jarach, adottò una subdola politica di diffamazione nei
confronti dei fratelli, dicendo che non erano idonei a trattare e a vendere
carne kasher, in quanto non ebrei secondo l'halachà. I fratelli
Zippel non esitarono a dare lo sfratto ai fratelli Levi, con la partenza
definitiva di Plaut in Israele, e nel febbraio 1973 dovettero lasciare il
negozio di via Poerio.
Alla fine di marzo, venne inaugurato il nuovo negozio di
macelleria e salumeria kasher in via Cesare da Sesto. I fratelli, aiutati, in
parte, da papà e, in parte, da un sostanzioso finanziamento della Banca
Popolare di Milano (ottenuto grazie a una lettera di raccomandazione dell'ing.
Jarach), riuscirono ad approntare tutte le attrezzature necessarie per
intraprendere la nuova attività in un locale spazioso a due locali e a
due vetrate, ubicato in una via a senso unico a pochi metri da viale Papiniano
e corso Genova. All'inaugurazione partecipai anch'io, che ero venuto per fare
in famiglia le vacanze di Pesah. Con me, c'erano anche lo zio Libero, fratello
di papà (che abitava a 500 metri di distanza, in piazza S. Agostino), i
genitori, i fratelli, il Morè, Peretz, il rabbino capo Kopciowski e il
signor Laniado, un consigliere della comunità. Facemmo un brindisi e il
rabbino di Milano fissò la mezuzà all'entrata del negozio.
Naturalmente, continuò il boicotaggio da parte di Garelik e dei suoi
seguaci, che, del resto, non impediva la normale attività del negozio,
che veniva controllato dal rabbino Elharar, che frequentava anche la sinagoga
ashkenazita di via Cellini ed, essendo egli persona onesta, rassicurava i
correligionari dichiarando che il negozio veniva gestito sotto la più
stretta osservanza religiosa.
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Nell'estate del 1973, alla fine del secondo anno di
studi, intrapresi il tirocinio nell'ospedale psichiatrico gerosolimitano di Ezrat
Nashim, una clinica che ospitava, per lo più, donne di ogni età
affette da una vasta gamma di patologie mentali, che i testi di psichiatria
etichettavano sotto i termini di isteria, schizofrenia, psicosi e nevrosi. In
quel periodo avevo letto anche le "Libere donne di Magliano" dello
scrittore psichiatra Mario Tobino, che mi aveva fatto conoscere
l'umanità presente nei manicomi e che avrebbe influenzato il mio
approccio alla malattia mentale. L'anno seguente scrissi una lettera a Tobino,
allegando due mie poesie ed egli mi rispose e mi disse che aveva gradito le
poesie e mi incitava a continuare il percorso intrapreso, anche se, aggiunse,
ogni anno passato con i malati mentali aggiunge un grano di pazzia alla nostra
esistenza. Ezrat Nashim era un istituto di nuova costruzione, a porte chiuse,
di cui ricordo vivamente l'afrore del DDT che si sprigionava dai corridoi e
dalle camerate e la cappa di calore pomeridiano che aveva il sopravvento
sull'aria che smuovevano i ventilatori infissi sui soffitti. Alcune pazienti,
sotto l'effetto degli psicofarmaci, vagavano come inebetite lungo i corridoi
della clinica e altre erano occupate nella sala di ergoterapia. Il mio stage
durò due mesi e, più che altro, ebbe il fine di farmi conoscere
la realtà della malattia mentale, attraverso gli intake, le
sedute del personale e la lettura delle relazioni degli assistenti sociali. Per
me fu un'esperienza interessante e gratificante che mi arricchì
umanamente e mi diede l'opportunità di assistere alle dinamiche di
gruppo e di imparare ad interagire con le persone affette da sofferenze
mentali.
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La sera del 5 ottobre 1973, quando iniziò il
digiuno di Kippur, mi trovavo a Zahala, ospite della famiglia di Claudette.
L'indomani mattina, andai in una sinagoga di rito sefaradita con il papà
e il fratello maggiore della mia amica. La giornata era calda e afosa, ma
l'interno dell'oratorio era rinfrescato dall'aria condizionata. Alle 14.00
esatte, l'ululato delle sirene d'allarme (che, in passato, avevo già
sentito nei giorni di commemorazione della Shoà e del Ricordo dei caduti
in guerra) lacerò l'atmosfera monotona delle litanie sinagogali e il
rabbino officiante proclamò che l'allarme indicava un imminente pericolo
di guerra, per cui tutti gli uomini sotto le armi avrebbero dovuto subito
mettersi in contatto con le loro unità. Ricordo che molti uscirono
frettolosamente e anche noi tornammo a casa, perché, in realtà,
nessuno se la sentiva di continuare la preghiera. Saliti a casa, accendemmo la
radio e ascoltammo, a più riprese, il comunicato del primo ministro
Golda Meir, che dichiarava che, alle ore 14.00, i confini meridionali (la linea
di fortificazione Bar-Lev lungo il canale di Suez) e settentrionali (le alture
del Golan) dello Stato d'Israele erano stati proditoriamente attaccati
dall'Egitto e dalla Siria. Tra un comunicato e l'altro, venivano lette le sismaoth,
le parole in codice per i riservisti, che dovevano raggiungere immediatamente
le loro unità. Nei primi due giorni di guerra, gli eserciti egiziani e
siriani riuscirono a sfondare e a provocare centinaia di vittime fra i nostri
soldati. La controffensiva israeliana durò più di una settimana e
risultò che, al nord, i siriani vennero respinti al di là delle
alture del Golan e le nostre forze arrivarono a 40 chilometri da Damasco, che
venne bombardata dalle artiglierie. Nel Sinai, le forze di fanteria, comandate
da Ariel Sharon, ben coperte dall'aviazione, riuscirono a varcare il canale di
Suez, a penetrare in territorio egiziano, arrivando a 101 chilometri dal Cairo
e ad accerchiare la terza armata egiziana, che, non ricevendo più
rifornimenti, rischiava di venire sterminata da sete, fame e fuoco. Le febbrili
consultazioni diplomatiche tra URSS e USA imposero ai contendenti il cessate il
fuoco il 24 ottobre. Il conflitto ebbe implicazioni a lungo termine per i paesi
che ne furono coinvolti. Il mondo arabo, che era uscito umiliato e sbaragliato
dalla guerra del 1967, si sentì appagato dalle vittorie ottenute nei
primi due giorni, che inflissero forti perdite al nemico. Per l'Egitto, guidato
da Sadat, fu l'inizio di una nuova fase strategica, che l'avrebbe portato sotto
l'influenza militare americana e, di riflesso, qualche anno dopo, alla pace e
alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Per lo stato ebraico, che pianse
la morte di più di 2800 soldati, fu un vero e proprio tzunami; le
commissioni d'inchiesta posbelliche misero sotto accusa i vertici governativi,
militari e dell'intelligence, rivelandone le omissioni e i gravi errori di
valutazione.
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Concluso il digiuno di Kippur, feci ritorno a Gerusalemme
con Claudette, che, da qualche giorno, si dimostrava fredda e insofferente ai
miei approcci; con grande sincerità mi confessò che si era
innamorata di un altro ragazzo, Dudu, di professione meccanico, che veniva a
prenderla al lavoro (lei, per mantenersi agli studi, faceva la cameriera al bar
Max, nella centrale via Yaffo) con la sua Fiat 500. Fortuna volle che il mio
camerata Victor mi fu vicino e mi rincuorò, invitandomi dai suoi a Beer
Sheva, anche perché gli studi universitari erano stati sospesi e ogni
notte la città veniva semi oscurata e un'atmosfera di scoramento e di
mestizia pervadeva le strade della capitale.
Il 10 ottobre Victor ed io arrivammo a Beer Sheva, che
nel 1973 era una città in piena espansione edilizia. L'appartamento
della famiglia Sillam aveva piccole dimensioni e consisteva di tre stanze, un
salotto, cucina e servizi. Oltre a papà Renè, un buon padre di
famiglia, che faceva turni massacranti nella locale industria aeronautica, e a
mamma Daisy, una straordinaria donna di valore, che lavorava come infermiera
all'ospedale Soroka, ci vivevano le quattro sorelle di Victor: Patrice,
studentessa di fisioterapia, Marie, liceale, Joyce e Daniela, allieve di scuola
media ed elementare. La famiglia Sillam mi accolse a braccia aperte, come un
figlio e mi coprì di attenzioni e di cure, riservandomi la camera
più grande, che condivisi con Victor. Fui loro ospite per più di
un mese e oggi, a distanza di anni, trovo che le parole sono insufficienti per
esprimere la mia gratidudine per l'altruismo, la generosità e il senso
di ospitalità che contraddistinse quell'atto di vera amicizia. La mia
permanenza fu sempre accompagnata da premure, sorrisi e cortesie. Per non parlare
della cucina tunisina di mamma Daisy, che imparai a gustare e ad apprezzare,
soprattutto nei pranzi sabbatici. Il periodo trascorso a Beer Sheva mi fece ben
presto dimenticare "le pene d'amore". La mattina, Victor ed io
andavamo all'ospedale Soroka per fare del volontariato, che consisteva nel
preparare garze e bende per le centinaia di soldati, che arrivavano feriti dal
fronte meridionale. La sera, c'era l'oscuramento parziale e le vetture potevano
circolare a fari bassi; qualche volta uscivamo a prendere un gelato alla panna
o andavamo a trovare la nonna di Victor, che abitava da sola in una piccola
casetta, che di giorno era protetta dall'ombra dei melograni. Le serate
trascorrevano davanti alla tivù, che trasmetteva gli aggiornamenti dai
campi di battaglia e negli ultimi giorni di guerra, arrivavano notizie non
sempre controllate, come quella del ferimento del marito di una cugina di
Victor. Un ferimento che si rivelò assai meno grave di quanto paventato.
Tuttavia, gli incontrollati passaparola su ragazzi morti al fronte, che
caratterizzarono quel periodo, spesso si rivelarono fondati e, purtroppo,
alcuni caduti non ebbero gli onori della sepoltura e dei funerali militari.
Quello che è certo è che alla fine della
guerra, con 2800 morti, più di 8000 feriti e 300 tra dispersi e
prigionieri, non ci fu casa in Israele che non conobbe il nome di una o
più vittime. Quando Victor ed io tornammo, a metà novembre, alla
casa dello studente, fummo informati che il nostro vicino di stanza, David
Kenet, un ragazzo serio, taciturno e riservato, che studiava Economia, era
caduto sul fronte siriano.
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A novembre lasciai lo studentato di Har Hatzofim e andai
a vivere nel centro di Gerusalemme, in via Itamar Ben Avi, a due passi dalla
residenza del Presidente dello Stato. Victor aveva lasciato gli studi di
Economia e si era iscritto alla scuola biennale di turismo Tadmor, molto
più confacente alle sue doti. Nel nuovo appartamento di due locali,
situato al pian terreno, abitavo con Richard Zerbib, mio coetaneo, algerino di
nascita e parigino di adozione, che faceva parte del gruppo di amici
francofono. Richard era un bel ragazzo, dal fisico atletico e a settembre era
diventato papà di un maschietto, Shay, che aveva avuto a seguito di un
flirt con Ninon, una procace ragazza belga, che frequentava la nostra
compagnia. Il loro legame si sciolse ben presto e Richard, pur riconoscendo la
paternità, lasciò all'ex amica la cura del piccolo. Richard si
era iscritto alla facoltà di Matematica, ma non studiava con profitto e
rare erano le volte che passava qualche ora sui libri. Come persona, Richard,
pur sorridente e spiritoso, aveva un carattere chiuso e introverso e nei rari
momenti di apertura, confessava di non aver ancora trovato una strada giusta e
gratificante da percorrere. L'anno seguente Richard concluse la sua esperienza
israeliana e tornò in Francia per lavorare con i suoi genitori, che
gestivano un negozio di frutta e verdura a Sucy en Brie, nella periferia
parigina.
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Tornata la normalità, a metà novembre
ripresi gli studi per frequentare il terzo e ultimo anno accademico (1974-1975)
di Social Work, che prevedeva il tirocinio in una delle istituzioni pubbliche
affiliate all'università. Io scelsi l'area psichiatrica e, a gennaio,
iniziai il tirocinio nell'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul insieme a due
compagne di studi, un'israeliana e la padovana Laura Vitali Norsa, che,
arrivata nel 1970, aveva fatto il mio stesso percorso di studi. Kfar Shaul era
un istituto che era stato costruito su parte delle rovine del villaggio arabo
di Der Yassin, che nell'aprile del 1948, era stato teatro di duri scontri tra
la popolazione locale araba e i miliziani dell'Irgun, capeggiati da Menachem
Begin. L'ospedale, fondato nel 1951, ospitava per lo più sopravvissuti
all'Olocausto e pazienti con forme croniche e acute di disagio mentale. Dei
sette reparti presenti, due erano chiusi e uno accoglieva pazienti con gravi
handicap fisici e mentali. L'ospedale era diretto dal professor Janos
Schossberger, un lunatico e geniale psichiatra di origini ungheresi, patito
delle opere di Mozart, che, pur aperto alle nuove teorie della psichiatria
umanistica, gestiva la cura dei pazienti con metodi tradizionali di
contenimento (nel caso specifico, con massicce dosi di psicofarmaci). A Kfar
Shaul ho lavorato due anni e avrei tante e varie esperienze da raccontare,
tristi, comiche, drammatiche, umane, intime, ma penso che non avrebbe senso
farle riafforare alla memoria e metterle per iscritto, se non per puri motivi
di narcisismo. In verità, per me la vita lavorativa in un manicomio non
fu affatto diversa da quella vissuta tra la gente comune, perché quello
che conta è come noi ci rapportiamo con il prossimo; io ho sempre visto
nel paziente psichiatrico una persona che bisogna rispettare, come tutte le altre,
che va aiutata perché ritrovi il proprio equilibrio interiore.
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Nel gennaio 1974 sperimentai, in prima persona,
un'umiliazione, simile ad altre successive, provocata dalla concezione di un
certo tipo di ebraismo formalistico e bigotto, che si cura più
dell'osservanza che non del rispetto della persona. In quel mese, infatti, la
mia compagna di studi e collega di lavoro Laura Vitali Norsa si era iscritta al
Rabbinato di Gerusalemme per espletare le formalità di matrimonio con il
suo fidanzato Mario Sznejder. Tra le altre pratiche, aveva dato il mio
nominativo come suo testimone alla cerimonia della ketubà, la
stesura del contratto matrimoniale (che precede la santificazione del
matrimonio), in cui lo sposo, alla presenza del padre della sposa, del rabbino
e di due testimoni, si impegna a pagare un tot alla sposa, in caso di divorzio.
Qualche giorno dopo, Laura, molto dispiaciuta, mi disse che la mia candidatura
a far da testimone non era stata accolta dal Rabbinato, che era stato informato
dal signor Grosser che il mio status di ebreo era dubbio secondo le regole
della halachà. Il signor Grosser, un ebreo ortodosso di origini
austriache, che aveva vissuto a Milano e risiedeva da due anni a Gerusalemme,
venuto a conoscenza della mia presenza da testimone, era intervenuto di persona
per annullarla. Una volta informato, scrissi al signor Grosser una lettera
accorata e contenuta nei toni (ero obbligato a rispettarlo, in quanto
papà gli era riconoscente perché gli aveva trovato lavoro da
Valentino), nella quale censuravo la sua indebita intromissione; con quale
diritto si era permesso di mettere in discussione la mia ebraicità,
mortificandomi in quel modo. Grosser mi rispose subito, invitandomi a pranzo
per chiarire il suo gesto. Nel suo feudo ribadì concetti già
noti, in cui mi spiegò di aver agito per evitarmi inutili interrogatori
e lui non intendeva assolutamente mancarmi di rispetto o umiliarmi e se
così era stato, mi chiedeva scusa. Mi congedai da casa sua con un sorriso
e una stretta di mano. Oggi, a distanza di anni, penso di essere stato stupido
ad accettare il suo invito; per rompere una cattiva abitudine ci vogliono mezzi
estremi e non sorrisi e strette di mano riparatorie. Umiliare e mortificare una
persona è molto più grave dell'inadempienza di una regola
rabbinica, che spesso è arbitraria e soggetta a varie interpretazioni.
Povero ebraismo finchè sarà in mano a coloro che formalizzandosi
sulla punteggiatura non riescono più a leggere la frase!
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Dopo l'esperienza sentimentale con Claudette, ebbi
qualche flirt con ragazze conosciute all'università e una, in
particolare, mi piacque, fisicamente parlando. Era Janine, una ventiduenne di
origini rumene, che qualche mese prima aveva perso l'unico fratello, soldato,
in circostanze tragiche. Con Janine, molto appariscente, spregiudicata e anche
un po' squilibrata, uscii per due o tre mesi, ma fu lei che, a settembre,
quando tornai da Milano, non si fece più vedere o sentire, dopo essere
partita per gli USA. A ottobre conobbi Adele, una ragazza di Cardiff, molto
carina, educata e per bene, che però, per principi religiosi, era
contraria ai rapporti prematrimoniali. Ricordo che il 9 settembre 1974,
tornando insieme con lei dal cinema, (avevamo visto Night at the opera
dei fratelli Marx), trovai affisso sulla porta un telegramma da Milano: erano i
genitori che mi annunciavano la nascita di Sara, la secondogenita di Iliade e
Gino. Nei giorni seguenti, dopo qualche frequentazione e un tentativo fallito
di baciarla, Adele mi disse che se avessi avuto delle intenzioni serie avrebbe
avuto piacere a uscire con me stabilmente. Io preferii troncare quel rapporto,
in quanto lo trovavo troppo impegnativo e così a dicembre ritrovai la
mia libertà.
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Non ricordo esattamente la data. Tuttavia, ricordo che in
quel settembre del 1974, prima di partire per Israele, papà mi
portò alla sinagoga di via Guastalla perché ricevessi la
benedizione del Morè. Quando chiesi spiegazioni a papà, mi
rispose che aveva sentito dire che il Morè "è un gran
hacham" (saggio) e conosce anche tanti segreti. Fu così che, grazie
a papà, ebbi il privilegio di conoscere il Maestro e di riceverne la
benedizione. Ricordo che quando entrammo in sinagoga, alla fine della funzione
del mattino, vidi il Morè seduto nel suo posto fisso, a ridosso della
parete laterale sinistra, vicino alla porta d'uscita. Papà mi
presentò e, dopo i convenevoli di rito, chiese al Morè se la data
della partenza per Israele, fissata per quei giorni, fosse idonea. Il
Morè, dopo un attimo di concentrazione, in cui si guardò
l'orologio, sorrise e disse che la data andava bene. Papà chiese poi di
benedirmi e il Morè mi mise la mano in testa, che io abbassai, e
profferì a bassa voce qualche parola in ebraico. Fu così che lo
ringraziammo e lo salutammo e ricordo che anche in tempi successivi papà
si premurò di ripetere quest'azione, prima di ogni mia partenza per
Israele.
E qui mi preme aprire una parentesi per ricordare un
tratto della personalità del mio amato genitore, caratteristico di molti
ebrei della sua generazione. Papà era cresciuto in un ambiente secolare
e patriottico, che aveva ereditato da suo nonno Moshe, il quale, emancipato dal
ghetto di Ancona, si era arruolato con entusiasmo tra le file garibaldine e da
suo padre Abramo, che aveva allentato di molto il giogo della tradizione
religiosa ebraica (basta vedere i nomi impartiti ai figli: Anna, Lino, Bruna,
Libero, Rinaldo, Remo, Italo). Si trattava di un nuovo spirito egualitario e
libertario, che faceva dire loro "siamo tutti italiani, siamo tutti
uguali". Furono poi le famigerate leggi razziali del 1938 che dimostrarono
il contrario, oscurarando quel secolo di emancipazione e di buoni propositi.
Papà, pur non avendo ricevuto un'istruzione ebraica, conservava alcuni
tratti di identità che gli avevano trasmesso i suoi genitori (più
suo padre Abramo che sapeva leggere in ebraico e aveva studiato nel talmud
torà di Ancona, che non la mamma Iliade, morta quando lui aveva solo
15 anni). Papà conosceva le parole ebraiche del gergo giudaico (che ci
ha trasmesso), recitava a memoria la prima parte dello Shemà Israel,
amava festeggiare e celebrare le ricorrenze, andando in sinagoga, era pur
sempre attaccato ad un passato che l'assimilazione recente non gli aveva fatto
scordare. Pur tuttavia, "ci teneva ad essere iudio" e voleva
che anche i suoi figli lo fossero. Per questo aveva fiducia nel Morè,
che considerava un hacham, un saggio esperto di Torà, una figura
venerabile, propria del suo retaggio atavico. E papà sapeva che la
benedizione di un hacham, amato da Dio, aveva il potere di proteggere i suoi
figli. E l'intercessione del Morè sarà estremamente importante
qualche anno più tardi.
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Il 1975 fu per tutti noi un anno emblematico,
contrassegnato da alcuni eventi spiacevoli e drammatici. Il primo
riguardò la salute di papà, che, all'età di 59 anni,
cominciò a manifestare i primi sintomi del Parkinson, attraverso un
lieve tremolìo della mano, che Tullo notò, durante un pranzo
domenicale; "ma, Remo, tu tremi!" fu la frase che pronunciò
distintamente e all'improvviso, mentre papà sorbiva il suo brodo di
pollo. Come le prime note della Quinta di Beethoven, quell'esclamazione, che
riecheggia ancora oggi nella nostra memoria collettiva, fu il drammatico
preludio di un periodo che, progressivamente, deteriorò la
qualità di vita di papà.
Anche la macelleria dei fratelli fu scossa da una serie
di episodi che lasciò un segno indelebile sull'intera famiglia. Ho
già avuto modo di raccontare il clima di diffidenza e di ostilità
nei confronti di Giordano e Renato, portato avanti dal rabbino Garelik, ma
mitigato, in parte, dalla supervisione del rabbino Elharar. Gli eventi
precipitarono il giorno in cui Elharar decise di andare a vivere in Israele.
Pochi giorni prima della partenza, egli entrò nel negozio dei fratelli e
accommiatandosi con commozione, perché aveva imparato a conoscerli e a
volergli bene, disse che il futuro avrebbe riservato loro dei grossi problemi,
perché le maldicenze erano ormai radicate e tutti aspettavano un passo
falso per eliminarli; consigliò a Giordano di andare da Garelik e
chiedergli di mettere un supervisore tutto il giorno, che fosse presente
dall'apertura alla chiusura e tenesse con sé le chiavi del negozio. La
proposta di Elharar cadde nel vuoto, in quanto Kopciowski affidò a
Peretz la mansione di controllore e di dipendente di Giordano. Il gruppo Habad,
capeggiato da Garelik, tuttavia, restò saldamente ancorato al negozio,
dal momento che i tre macellatori della comunità ne facevano parte
(Gansbourg padre e figlio ed Elmalech). La loro politica di esigere somme
elevate per ogni chilo di carne macellata ebbe due conseguenze: la prima di far
lievitare in modo sproporzionato i prezzi della carne e del pollame kasher,
che diventavano così merce esclusiva per un'utenza ricca e benestante, lasciando
ai fratelli dei margini di guadagno minimi; la seconda fu quella di costringere
Giordano a chiedere che i macellatori arrivassero dalla comunità ebraica
di Roma. Al rifiuto di Kopciowski e dei macellatori stessi che impugnavano la
regola rabbinica dell'asagat gvul (il diritto di
territorialità ad operare entro i confini della propria
comunità), si arrivò al giorno in cui Giordano, esasperato dalla
situazione, decise di rivolgersi al Morè, che era stato per decenni lo
shohet (macellatore) della comunità ebraica del Cairo. Il Maestro
accettò di aiutare i fratelli a condizione che la sua prestazione fosse
gratuita. Giordano trovò un macello a Castione di Loira (Treviso),
presso
A distanza di anni, considerando obiettivamente i fatti,
si può concludere che in tutta quella faccenda i fratelli agirono in
buona fede ma peccarono di inesperienza e, forse, di superficialità. Se
avessero agito con audacia, alla luce del sole, avrebbero potuto affrontare i
loro denigratori da una posizione di forza e non di sudditanza psicologica. Se
ti comporti bene davanti a Dio non hai da temere il tuo rivale.
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L'azione diplomatica di papà, che fece intervenire
il suo amico Raoul Elia, consigliere molto influente in seno alla comunità,
ebbe il risultato di far riavere ai fratelli la certificazione rabbinica,
concessa nuovamente da Kopciowsky, a condizione che in negozio lavorasse a
tempo pieno Shlomo Haddad, il fratello minore di Yehoshua Haddad, anch'egli
Lubavitch e rabbino officiante nell'oratorio sefaradita di via Guastalla.
Questo Yehoshua era un tipo scaltro, che aveva fatto della kasherut un
business milionario; come lui sono molti i rabbini, che dietro una barba lunga
e un abbigliamento nero, e, forti della loro competenza in materia, valutano,
in primis, il loro tornaconto personale, incuranti della massima dei Padri che
mette in guardia i saggi a non fare della Torà "un piccone con cui
scavare", un oggetto cioè da usare per trarre profitti personali.
D'altro canto, il binomio kasherut-business, che fa arricchire molti ebrei
ortodossi, era detestato dal Morè, che lo considerava una vera e propria
forma di idolatria al dio Mamon-Denaro e una terribile profanazione del Nome (Hillul
HaShem).
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Nella primavera del 1975 conobbi la mia futura moglie,
Liat Wishnizky, che studiava Arte a Bezalel, la prestigiosa università
di Belle Arti di Gerusalemme. La conobbi attraverso amici comuni; lei abitava
in uno spazioso appartamento in via Herzog insieme ad altre tre studentesse, la
russa Sonia, l'israeliana Peggy e la cilena Gabriella, che era compagna del mio
amico argentino Eugenio. Un giorno che accompagnai Eugenio dalla sua fidanzata
(si sarebbero infatti sposati alla fine dell'anno), Gabriella mi
presentò Liat, che era intenta a ordinare i suoi quadri. Dopo la
presentazione, rimasi nella sua camera e osservai le tele che aveva realizzato;
lei mi chiese le mie impressioni e, dal momento che vi vedevo dei paesaggi,
raffigurati con macchie sovrapposte di colori, le risposi che il suo stile
astratto era indubbiamente interessante. Mi soffermai ancora qualche minuto a
scambiare qualche parola e poi me ne andai con Eugenio. Tornando a casa, sulla
sua Fiat 124 verde, gli dissi che questa Liat era carina e mi avrebbe fatto
piacere se fossimo usciti insieme. Anche Liat disse alla sua amica che non era
rimasta indifferente alla mia presenza, per cui combinammo di uscire insieme
tutti e quattro. Ricordo che andammo nella Città Vecchia e io, per fare
lo spiritoso, caricai Liat su un carretto a due ruote e la trainai per un
vicolo poco illuminato, come se fosse un carico di pani arabi, facendola
divertire molto. Quando finì la nostra gita notturna e tornammo a casa
con l'auto di Gabriella, rimasi sorpreso perché Liat si accomiatò
dandomi un bacino in bocca. Ne dedussi che questo era un invito a voler
continuare a corteggiarla. E, infatti, iniziammo a frequentarci sempre
più assiduamente e così arrivò anche il giorno che Liat mi
portò a casa sua, a Bat Yam, per farmi conoscere i suoi genitori: il
papà Pinhas, un signore timido e taciturno, sulla sessantina, nato nella
cittadina polacca di Chmelno, a cui i nazisti avevano sterminato tutta la
famiglia (gli era rimasta soltanto una sorella più anziana, vedova senza
figli, che viveva in un ospizio per anziani a Gerusalemme) e la mamma Busia,
nata nella cittadina ucraina di Novograd Volinsk, che durante la seconda guerra
mondiale aveva vagabondato con sua madre nell'est della Russia, per sfuggire
alla fame e ai bombardamenti tedeschi. I due, rimasti soli al mondo dopo la
guerra, conosciutisi attraverso un'amica di Busia, avevano deciso di mettere su
famiglia, stabilendosi a Lvov (Lvjv, in Ucraina). Dalla loro unione nacquero
due figlie, Elisabetta (che in Israele cambiò il nome in Liat), nata il
12 ottobre 1950 e Evgenia (in Israele cambiò il nome prima in Yaffa e
dopo in Efi) nata il 3 novembre 1956. Fu nell'estate del 1957 che la famiglia
Wishnizky emigrò in Israele, nella torrida cittadina di Beit Shean,
approffitando di un tacito accordo tra Unione Sovietica e Israele, finanziato
dal Joint ebraico americano, che permetteva agli ebrei della Polonia e
dell'Ucraina di andare a vivere entro i confini del neonato stato ebraico.
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Ottenuta la laurea in Social Work all'Università
di Gerusalemme, continuai a lavorare all'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul,
non più come tirocinante ma come salariato del Ministero della
Sanità. Il modesto stipendio mi permetteva di vivere in modo autonomo,
senza chiedere soldi a papà, e così anche di pagarmi il canone di
affitto in un mini-appartamento centrale, che condividevo con una ragazza
cilena, Mili, che studiava balletto classico. Nell'inverno del 1975 si
consolidò la mia relazione con Liat, per cui decidemmo di andare a
vivere insieme. Trovammo un appartamento di tre locali in rehov Rabinovitz, nel
quartiere di Kiriat Hayovel, che condividemmo con il mio amico Richard e con
una ragazza russa di nome Ina, che ospitava spesso il suo compagno israeliano.
Questa coppia si rivelò infida il giorno in cui manomise un espresso di
papà, spedito da Chiasso, e si appropriò dei 200 dollari inseriti
all'interno. I due negarono di aver rubato i soldi, ma alla mia minaccia di
denunciarli alla polizia, ammisero il furto e me li restituirono. In quel
periodo maturò l'idea mia e di Liat di sposarci, per cui decidemmo di
farlo a Milano, nel mese di settembre.
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Il 30 maggio 1976 Giordano e Stella, che era al terzo
mese di gravidanza, si sposarono nella sinagoga centrale di Milano. Il 15
dicembre, compleanno della nostra amata mamma, nacque la loro primogenita
Debora. Il 13 maggio 1978 venne al mondo Lea, la secondogenita, che, qualche
mese dopo, sarebbe stata al centro di una vicenda che avrebbe cambiato la vita
di tutta la nostra famiglia.
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Il 19 settembre 1976 anche Liat ed io ci unimmo in
matrimonio nel tempio di via Guastalla. Alla cerimonia, oltre ai miei familiari
e parenti, erano presenti anche i genitori e la sorella di Liat. Il rabbino
Kopciowsky e il cantore sinagogale Eliezer Cohen officiarono le sette
benedizioni nuziali. Il rinfresco si svolse nel lussuoso hotel Michelangelo
(pagò tutto papà) e tra gli invitati c'erano anche il Morè
con la signora Mazal e il suo talmid Peretz con l'ex moglie Rivka, invitati
espressamente da papà.
Il viaggio di nozze non fu particolarmente intimo, in
quanto si unirono a noi Pinhas, Busia, Efi e una sua amica, Batya, per la prima
volta in Italia e quindi desiderosi di visitare le tre più famose
città del Belpaese. E, infatti, il nostro itinerario toccò Roma, Tivoli,
Firenze e Venezia. Dopo le nozze, Liat ed io decidemmo di fermarci a Milano ed
andammo ad abitare in un monolocale di un residence in via Guinizzelli, una
laterale di viale Monza, in cui avevano vissuto prima Giordano e Stella.
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Tornato a Milano, mi diedi da fare per trovare
un'occupazione come assistente sociale, ma i miei tentativi, sia in ambito
comunitario ebraico che comunale, non sortirono esito alcuno. Trovai un
lavoretto di tre ore settimanali alla scuola internazionale di via Osoppo,
nella quale insegnavo ebraico ai bambini di una clesse in prevalenza
israeliani. Inoltre, l'assistente sociale della comunità israelitica mi
diede i nominativi di due bambini di famiglie ebraiche iraniane che necessitavano
di un'assistenza psico-didattica. Dopo aver contattato le famiglie, decidemmo
che mi sarei presentato a domicilio per due volte alla settimana e mi avrebbero
pagato come se avessi impartito una lezione privata. Il primo bambino, che
aveva 11 anni, soffriva di una forma leggera di autismo e, all'inizio, ebbi
difficoltà ad instaurare con lui un rapporto di confidenza. Il suo
linguaggio era molto limitato (anche perché i genitori non erano di
madre lingua italiana) e, all'inizio, riuscii ad entrare nel suo mondo
attraverso il racconto di Mary Poppins, film che lo aveva entusiasmato. L'altro
bambino, di 10 anni, era obeso ed affetto da una forma di ritardo mentale, che,
tuttavia, non comprometteva la sua capacità di comunicare in modo normale
con l'ambiente. Si trattava di un bambino simpatico e sorridente, quasi sempre
di buon umore, a cui dovevo insegnare a leggere e scrivere, come se fosse in
prima elementare. Il lavoro fu proficuo e il nostro legame si rafforzò
con i mesi e, quando dovetti lasciarlo per tornare in Israele, ne soffrì
molto.
La nostra situazione economica precaria, il clima
uggioso, inquinato e freddo di Milano che intristiva Liat, isolata per ore a
casa davanti alla tv, ci fecero prendere la decisione di tornare in Israele.
Prima di farlo, però, approfittammo del nostro essere in Italia per fare
qualche gita in Europa. Fu così che a Pesah andammo in treno prima a
Parigi (dove fummo ospiti per due giorni di Richard Zerbib) e poi ad Amsterdam.
A fine giugno, quindi, andammo in Inghilterra e affittammo per un mesetto un
appartamento, in Golders Green, vicino alla casa di Victor, che, nella capitale
londinese, faceva uno stage in albergheria. Con lui e la sua futura moglie Jill
facemmo una bellissima gita nella lussureggiante regione dei laghi (Lake
District). Dopo la vacanza d'agosto a Zadina di Cesenatico, località di
mare "adottata" per anni dalla famiglia Levi per trascorrervi in
serenità le vacanze estive, arrivò l'autunno 1977 che ci
riportò a Gerusalemme, dove andammo ad abitare in un bilocale in via
Ghedera. Trovai subito lavoro, come assistente sociale: un mezzo impiego
all'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul e un'occupazione serale all'ospedale
Alin, che ospitava bambini disabili e cerebrolesi.
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La situazione di precarietà e di
instabilità che contraddistinse la mia vita di quegli anni, associata
alle esperienze di lavoro in istituzioni mediche, maturò in me l'idea di
studiare Medicina. Questa idea, che era presente al conseguimento della maturità
classica, ma era stata accantonata in seguito alla mia partenza per Israele,
era rimasta sopita, ma da sempre caldeggiata da papà, che considerava
una laurea in Medicina ben superiore ad una in Assistenza Sociale. Quando
scrissi a papà che avevo maturato l'idea di andare a studiare Medicina a
Parma, la città da me amata fin dall'infanzia (papà mi ci aveva
portato più volte nei suoi viaggi di lavoro) e per la cui squadra di
calcio avevo sempre tifato fin dal 1957, lui ne fu entusiasta e mi rispose che
mi avrebbe aiutato a realizzare questo progetto con tutti i suoi mezzi. Anche
Liat, che era rimasta delusa dall'esperienza milanese, si disse pronta ad
affrontare questa nuova avventura, che sarebbe potuta durare sei-sette anni. Il
soggiorno a Gerusalemme durò esattamente un anno, perché
nell'agosto del 1978, rifacemmo le valigie e atterrammo nuovamente
all'aeroporto di Linate.
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A Parma arrivammo a fine settembre. Mi iscrissi
all'università e trovammo subito casa in via Mordacci 4. Si trattava di
un monolocale ristrutturato, di proprietà della famiglia Cugini, che
abitava nell'appartamento attiguo e con la quale avevamo un ottimo rapporto,
basato sulla stima reciproca e sulla loro gentilezza (ci permettevano di
ricevere le telefonate dei genitori da Milano). La città, tranquilla e
ospitale, piacque subito a Liat, che la trovava a misura d'uomo, così
diversa dall'anonima, cupa e caotica Milano. L'impatto con questa nuova realtà
ebbe influssi benefici sulla nostra vita di coppia e Liat si accorse di essere
incinta a novembre. Trovammo un ottimo ginecologo, il professor Mansani, che,
alla seconda visita, quando venne a sapere che ero studente, rifiutò il
pagamento e ci disse che le visite susseguenti sarebbero state gratuite.
Cominciai a frequentare l'università con assiduità e a studiare
anatomia, chimica, fisica, biologia ed istologia, spostandomi da una
facoltà all'altra con una bicicletta di seconda mano, indispensabile in
una città come Parma.
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A novembre avvenne il fatto che indubbiamente
rappresentò il punto di svolta nella vita della nostra famiglia.
Giordano e Stella erano preoccupati perché la loro piccola Lea, che
aveva sei mesi, manifestava degli spasmi e delle convulsioni frequenti e uno
stato di malessere, di autismo e di irrequietezza generale rallentava il suo
normale sviluppo. La pediatra di famiglia consigliò loro di portarla in
ospedale e di fare un EEG dal momento che paventava una forma di epilessia
infantile. Gli esiti delle analisi in ospedale confermarono quella brutta
diagnosi, chiamata Sindrome di West, una forma epilettica dalla prognosi
drammatica, letale in molti casi. Anch'io mi affrettai ad andare al reparto di
Neurologia Infantile dell'ospedale di Parma e mi permisi di bussare alla porta
del primario per fargli qualche domanda. Costui, infastidito dal fatto che mi
fossi presentato senza fissare un appuntamento con la segretaria, non si
dilungò e confermò che si trattava di una malattia spesso
mortale.
Arrivato a Milano, trovai i miei familiari prostrati per
la terribile notizia. Fu Peretz a consigliare a Giordano di chiedere aiuto al
Morè, dopo che lo aveva informato della terribile diagnosi, confermata
anche da un consulto avuto con il prof. Canger, noto neurologo americano.
L'indomani, accompagnai Giordano alla casa del Maestro in via Anfossi. Il
Morè diede il suo assenso, a condizione, però, che la cosa non
venisse divulgata in pubblico.Tornammo a casa rincuorati, con l'intima speranza
che Iddio Benedetto avrebbe accolto l'intercessione del Morè per salvare
Lea.
L'indomani il Morè, accompagnato dal talmid
Peretz, e a digiuno da un giorno, si presentò a casa di Giordano in via
Koerner. Chiese di appartarsi nella stanza di Lea. Noi non sappiamo cosa fece
lo Zaddik, perché fu a tutti vietato di assistere. Dopo un quarto d'ora,
il Morè uscì dalla cameretta dei bambini molto contento ma anche
molto provato e disse "Iddio Benedetto ha fatto un miracolo, fuori dalle
leggi della natura". In seguito, i genitori di Lea dovettero subire molti
interrogatori da parte dei neurologi che si meravigliarono assai in quanto
l'EEG presentava dei tracciati nella norma, del tutto diversi da quelli
precedenti. "Ma che cosa le avete fatto?" chiese esterrefatto uno dei
neurologi presenti.Ci furono anche dei medici che volevano trattenere la
bambina in ospedale a mo' di cavia. Il Morè con piglio deciso e
autoritario comandò a Giordano e Stella di non portarla più
all'ospedale e di rispondere ai medici "E il Signore che ha accolto le nostre
preghiere", punto e basta. La piccola Lea accusò ancora qualche
convulsione nei giorni successivi, ma, grazie a Dio, la malattia scomparve e il
suo sviluppo psico-motorio seguì un corso del tutto normale. "Il
miracolo di Lea" fu il punto di partenza di questa nuova stagione che ci
stimolò a frequentare il Morè e a diventare suoi allievi.
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In quell'inverno del 1978 cominciarono le nostre
frequentazioni con il Maestro e con il suo primo discepolo Peretz. Si apriva
davanti a noi un nuovo mondo, in cui ci veniva presentato un nuovo tipo di
ebraismo, per molti versi a noi sconosciuto, luminoso e saggio, aperto al mondo
e poco conformista, antico nella sua tradizione ma moderno nella sua
interpretazione. Il Morè riusciva a celare la sua vera identità
attraverso la sua profonda umiltà e chi lo contattava in modo
superficiale o altezzoso pensava di aver di fronte a sé un normale
rabbino yemenita. Essere vicini alla kedushà (santità) del
Morè, servirlo a pranzo o durante la giornata, sentire le sue lezioni e divrei
(parole di) Torah era un previlegio immenso, che spettava a chi lo
avvicinava con rispetto e modestia. E' indubbio che la guarigione di Lea
influì vistosamente sul mio stile di vita. I viaggi a Milano per sentire
le lezioni del Morè si fecero più frequenti e ciò avvenne
a discapito delle lezioni tra le aule universitarie di Medicina.
Non che tralasciassi completamente gli studi, in quanto
il primo esame che diedi, a marzo, fu quello più impegnativo, di
Anatomia (la prima parte era scritta, la seconda, orale, con il prof. Azzali,
un parmigiano doc, che era impietoso con chi non conosceva alla perfezione la
materia). Ricordo quel giorno piovoso in cui andai con Liat alla bacheca della
facoltà per vedere i risultati e la nostra gioia quando accanto al mio
numero di matricola comparve il voto "ottimo".
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Il primo giugno 1979 era Shavuot. Ricordo che dopo cena
uscii di casa per fare quattro passi nel vicino giardino di via Mordacci. Il
campo era punteggiato dalle luci intermittenti di tante lucciole (insetto che a
Milano si vedeva a sciami negli anni Cinquanta e Sessanta e poi scomparve a
causa dell'inquinamento atmosferico) e il cielo sereno era rischiarato da un
quarto di luna. Alzai lo sguardo al cielo e feci una preghiera a Dio chiedendo
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La cerimonia della circoncisione, che avviene nell'ottavo
giorno dalla nascita, si svolse al Nostro Club di corso Venezia. Il Morè
ci fece l'onore di far da padrino e fu lui che tenne il neonato in braccio,
nello scranno del profeta Elia, quando il moel Yakoubi fece entrare il
piccolo nel patto di Abramo. Al neonato fu dato il nome di Moshe, dietro
suggerimento del Maestro; alla cerimonia erano presenti tutti i familiari e
anche la mamma di Liat, Busia, di benedetta memoria, arrivata appositamente da
Israele. Il nome Moshe non piacque subito a Liat, che lo trovava antiquato, ma
ben presto ci si abituò, anche perché, in famiglia, era stato il
nome del nonno materno e del mio bisnonno garibaldino. Dopo tre mesi dalla
nascita di Moshe, trovammo un nuovo appartamento in via delle Fonderie, a
ridosso del Parco Ducale e a cinque minuti dalla stazione ferroviaria, che
apparteneva al presidente della minuscola comunità ebraica di Parma,
Fausto Levi. Nello stesso stabile abitavano, tra gli altri, in appartamenti
diversi, anche la madre anziana del signor Levi, lui stesso con la moglie e le
due figlie adolescenti, e una coppia di studenti israeliani.
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E' indubbio che la nascita del primogenito cambia di
molto lo stile di vita dei genitori, che si sentono più responsabili e
più dediti alla cura di questa creatura indifesa e vulnerabile. Per Liat
fu un impatto positivo, in quanto svolse il suo compito di neomamma nel
migliore dei modi; allattava al seno il neonato, lo portava al parco, lo
accudiva con la massima cura, aiutata nel primo mese da sua madre Busia, nostra
ospite nel mini appartamento di via Mordacci. Per me, le contingenze di quel
periodo ebbero effetti contradditori. La guarigione di Lea e la conseguente
"scoperta" del Morè e di un nuovo mondo che si apriva al mio
spirito, da sempre alla ricerca della verità, fecero sì che lo
studio della Medicina non fosse più prioritario. Oggi, a distanza di
anni, posso affermare che furono le lezioni col Morè che ebbero
l'effetto di forgiare un carattere e una forma mentis che condizionano
tuttora il mio comportamento ed il mio rapporto con la vita. Chi ha avuto il
merito di frequentare il Maestro ha imparato a trattare il prossimo con la
giusta sensibilità, a rispettarlo da una posizione di umiltà, ad
ascoltarlo con interesse e pazienza. Ha imparato a lodare il Signore nella
buona e nella cattiva sorte, a considerare gli avvenimenti in un'ottica positiva,
ad amare Dio e le sue creature, a rifiutare il male e ciò che va contro
la natura. Ha imparato ad aiutare e ad avere misericordia dei poveri, dei
malati, dei deboli. Ha imparato a considerare simili tutti gli esseri umani,
perché "siamo tutti della stessa carne".
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L'anno 1980 fu, non solo per me, un anno di
sovvertimenti, di conflitti e di fermenti. A livello mondiale, alle
presidenziali americane, i repubblicani ebbero la meglio sui democratici e
così alla Casa Bianca l'ex attore d'Hollywood, Ronald Reagan,
sostituì lo scarso e incolore presidente Jimmy Carter. Nel Medio
Oriente, in Iran, la salita dell'ayatollah Khomeini attizzò vecchi
contenziosi sui pozzi petroliferi con l'Iraq di Saddam Hussein, che
sfociò in una cruenta guerra, che, protrattasi per otto anni,
causò più di un milione e mezzo di morti. In Polonia iniziarono i
fermenti antisovietici di Solidarnosc e il sindacato dei cantieri navali di
Danzica, capeggiato da Lech Walesa, diventò l'asse centrale di un movimento
di dissidenza di matrice cattolica e anticomunista che avrebbe ribaltato il
governo centrale filosovietico.
Gli influssi stellari infausti di quell'anno non
risparmiarono neppure l'Italia, che dovette far fronte ad un tasso di
inflazione elevatissimo, a scandali di varia natura (nel campo industriale,
bancario, politico, calcistico), a catastrofi naturali (il terremoto in
Irpinia, che fece più di 3.000 vittime con 300.000 senza tetto), ad
omicidi di natura terroristica (il docente universitario Bachelet e il giornalista
Walter Tobagi vennero assassinati dalle Brigate Rosse), a gravi attentati (la
strage di Ustica con lo scoppio in volo di un DC9 dell'Itavia e la bomba alla
stazione ferroviaria di Bologna, che provocarono complessivemente più di
200 morti).
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L'anno
Non vorrei qui essere frainteso: la conoscenza e
l'impiego dell'antica medicina ebraica non si scontra affatto con i canoni
della medicina occidentale moderna. La prima si rifà ad una saggezza
arcaica, tradizionale e naturistica; la seconda si basa su dati scientifici ed
empirici, che trovano riscontro nelle terapie che quotidianamente si applicano
negli ospedali, ambulatori e cliniche del mondo. La prima non sostituisce la
seconda, ma la integra con le sue cognizioni millenarie. Maimonide, il nostro
maggiore filosofo e interprete della Torah, era anche un luminare di medicina e
il suo trattato medico, Pirkei Moshe be-refuà, può essere
studiato ancora oggi per la sua visione olistica dell'organismo umano e per gli
innumerevoli consigli pratici.
I consigli del Morè non erano medicina
alternativa, come qualcuno potrebbe pensare, ma conoscenza profonda
dell'anatomia, fisiologia e patologia umana; si tratta di una summa di
nozioni, che ha radici antichissime, trasmesse spesso per via orale e anche in
forma segreta. Oggi, le malattie si possono curare con farmaci mirati, che,
tuttavia, possono avere effetti collaterali nocivi o con farmaci che perdono la
loro efficacia dopo prolungata assuefazione. Nella medicina del Morè, la
terapia è del tutto naturale e viene effettuata tramite le particolari
proprietà (seguloth, in ebraico) di erbe, piante, spezie, oli,
frutta, verdure e, persino, pietre e gemme.
Un altro importante aspetto da sottolineare è che
la medicina del Morè va sempre accompagnata con la preghiera al Signore,
che dispone della vita e della morte dei singoli, salute compresa. A volte,
è sufficiente la sola preghiera per sanare un fisico malato; e quanto
maggiore è la santità (kedushà) dell'orante, tanto
più miracolosa risulterà la guarigione. Purtroppo, questo dato di
fatto viene giornalmente sfruttato da miriadi di ciarlatani, sedicenti maghi,
falsi guaritori, mistici e kabalisti esoterici, che abusano della buona fede di
persone ingenue per soddisfare i loro appetiti (soldi, onori o sesso).
C'è un solo modo per riconoscere una persona che ha un livello di kedushà
superiore: se richiesto ad intervenire, non lo farà mai per ottenere
profitti in denaro od onori o riconoscimenti; la sua azione sarà
disinteressata, fine a se stessa e leshem-shamaim (per il solo amore a
Dio).
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Rimanendo in tema di medicina, il Morè era solito
citare due frasi del Talmud che riguardano la classe medica: la prima, che non
si può abitare in un luogo in cui non ci sia un dottore; la seconda, che
afferma che "al migliore dei medici è riservato l'inferno".
Sembrerebbero due frasi contradditorie, ma, in realtà, non lo sono,
diceva il Maestro. Il medico ha una funzione sociale insostituibile, in quanto
riesce con la sua professione a curare, operare e anche guarire i malati.
D'altro canto, questa prerogativa è esclusiva del Signore Santo, che
è Rofè holim (guaritore di malati). Possiamo pertanto dire
che il medico è un piccolo dio. E, allora, perché mai dovrebbe
essere destinato al gheenòm (inferno)? I nostri Saggi, di
benedetta memoria, dicevano che questa fine ingloriosa era riservata a coloro
che si erano insuperbiti a tal punto da considerarsi come dei, in grado di
disporre della vita dei propri pazienti. Quante volte nella nostra vita abbiamo
incontrato primari, professori e medici saccenti e presuntuosi, gonfi di
superbia, assetati di guadagni, spocchiosi dall'alto delle loro conoscenze in
materia, impazienti e irascibili? Fortunatamente, però, ci sono anche
medici ben disposti verso i pazienti, umani ed empatici, modesti e altruisti,
che, in realtà, praticano il loro mestiere per servire il prossimo, come
dice il Maimonide nella sua celebre e bellissima preghiera del medico.
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Nel settembre del 1980, a 76 anni, si spense a Torino la
nostra cara Ciccia o zia Bruna, la sorella maggiore di papà. Ci sono
persone nella nostra vita, che ci hanno ormai lasciato, delle quali conserviamo
tanti ricordi e tutti cari e significativi e lei era senz'altro una di quelle.
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Alla fine dell'anno, il Morè dovette subire una
grave e lunga operazione per rimuovere un tumore che comportò
l'asportazione della milza, del grande omento, del tratto terminale
dell'esofago, di parte del duodeno e di un grosso calcolo nel fegato. Durante
la convalescenza, il 28 gennaio 1981, il Maestro dovette tornare nuovamente
sotto i ferri, al S. Raffaele di Milano, dopo un attacco di peritonite. Una
delle lezioni fondamentali apprese dalle frequentazioni con il Morè,
è che bisogna benedire il Signore nella buona e nella cattiva sorte. Noi
non abbiamo mai sentito una parola di lamento dallo Tzadik, in tutto il periodo
di degenza e di convalescenza, ma sempre "Baruh Ha Shem" (Benedetto
sia il Suo Nome). Ciò significa accettare con amore e con rassegnazione,
consapevoli del fatto che ciò che ci manda il Santo Benedetto è a
fin di bene. Nel caso del Morè, tuttavia, il discorso assumeva un'altra
valenza; il Morè non era una persona comune, ma era un Giusto, un uomo
cioè che, secondo l'antica tradizione, riceve su di sé le
sofferenze altrui per evitare decreti terribili sul mondo. E' questo un
argomento molto delicato e di non facile comprensione; per gli atei, gli
agnostici e i razionali è insostenibile ed illogico, tuttavia, va
considerato e meditato solo se si ha una profonda fede in Dio e si assume
un'attitudine di pensiero, contrassegnata dall'umiltà e dalla
sottomissione verso il nostro Creatore. Ho già usato l'aggettivo "imperscrutabili"
per definire le vie del Signore. Non siamo qui di fronte ad un semplice
fenomeno di causa ed effetto, ma ad una realtà che trascende l'ordine di
pensare convenzionale. Non a caso, nella Torah è scritto
"ha-nistarot
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Dopo il lungo periodo di convalescenza, il Morè
riprese ad onorarci con la sua presenza e ad impartirci le sue interessanti
lezioni, che trattavano temi disparati (ho riportato parte di queste lezioni in
uno scritto di qualche anno fa).
Tra gli avvenimenti dell'anno 1981, ce ne furono tre, in
particolare, che attirarono la nostra attenzione: l'attentato in Vaticano al
Papa Giovanni Paolo II, il 13 maggio, per mano del terrorista turco Mehmet Ali
Agca; la distruzione del reattore iracheno di Osirak, il 7 giugno, da parte
dell'aviazione isrealiana: l'uccisione, da parte di fondamentalisti islamici,
del presidente egiziano Anwar Sadat, il 6 ottobre, durante una parata militare,
che ricordava l'attacco da lui sferrato contro Israele, otto anni prima, nel
giorno di Kippur. Riguardo a quest'ultimo avvenimento, ricordo il commento del
Morè, che disse "mitatò kaparatò", ossia
la sua morte è la sua espiazione. In altri termini, il fatto che avesse
attaccato il popolo d'Israele proprio nel giorno a lui più sacro,
durante il digiuno d'espiazione del Kippur, era stato, per così dire,
"espiato" dalla sua morte, infertagli da gente del suo stesso popolo.
Sadat, dopo la guerra del 1973 e in cambio del Sinai restituito da Israele,
aveva intrapreso una politica di distensione, arrivando agli storici accordi di
pace a Camp David, siglati nel settembre 1978, alla presenza del presidente
americano Jimmy Carter e del primo ministro israeliano Menachem Begin.
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Nel 1981, abitavo sempre a Parma con Liat e il piccolo
Moshe, in via delle Fonderie, in un appartamento in affitto di proprietà
del presidente della piccola comunità ebraica di Parma, Fausto Levi. A
Parma, frequentavo pur sempre la facoltà di Medicina ed ero riuscito a
presentarmi all'appello di due esami, uno in Biologia, che avevo superato con
un mediocre 21/30 ed uno in Istologia, con il temuto prof. Scandroglio, che
avevo fallito. A Parma abitavamo proprio davanti al Parco Ducale, uno dei
polmoni verdi del centro città ed erano frequenti le nostre passeggiate
tra i vialetti alberati di castagni e il laghetto artificiale, aggraziato da
pesci, oche e papere. Liat allevava con amore nostro figlio e ogni tre o
quattro giorni andavamo alla SIP di piazza Garibaldi per parlare al telefono
con i suoi familiari. Ho già avuto modo di dire che era papà che
ci pagava l'affitto; tuttavia, per non essere troppo di peso al mio genitore,
andavo spesso a Milano e facevo il fattorino dei miei fratelli in macelleria.
Con
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Dal 21 giugno al 19 luglio 1981, grazie alla
generosità di papà, il Morè e la signora Mazal vennero con
noi all'Hotel Meeting di Zadina di Cesenatico, che fu per anni l'albergo
prescelto dalla nostra famiglia per passarrvi le vacanze estive. Fu questo per
me un enorme privilegio, perché in quel mese potei stare vicino al
Morè ed apprendere molte nuove cose; tra l'altro, il Maestro volle che
leggessi con lui l'Igheret hashmad (
Il 14 luglio, feci un sogno alquanto significativo.
Sognai di essere con il Morè, che portava una valigia piena di libri. Mi
spiegò che dovevo andare in un palazzo di fronte e vendere quei libri
agli ebrei che vi risiedevano. "Vai tu, al posto mio, disse il Maestro,
bisogna salire al quinto o al sesto piano". Feci come mi disse e, arrivato
a destinazione, suonai il campanello ad una porta; mi aprirono due signore
anziane che comprarono due libri. Poi, sullo stesso pianerottolo, arrivai alla
porta di fronte e notai sullo stipite una mezuzà e, al centro,
una targhetta luccicante. Quest'ultima, come d'incanto, si trasformò in porta
girevole e davanti a me apparve l'immagine del Rambam, che, dopo qualche
istante, scomparve. La porta rimase chiusa e io tornai dal Morè, che mi
aspettava giù. La mattina seguente, quando raccontai il sogno, il
Morè sorridendo mi disse che avevo meritato e mi assicurò che il
Maimonide sarebbe tornato per darmi un messaggio. "Il sogno è
importante" disse il Morè "e fra due anni otterrai grandi
cose". Forse si riferiva al fatto che, trascorsi due anni, mi sarei dato
da fare per diffondere il libro "Milhamot Ha Shem" nella sua versione
in italiano, ma su questo argomento tornerò più avanti.
Un'altra importante lezione che ricevetti in quei giorni
fu la spiegazione del Morè sul mondo a venire (olam ha-bà).
Secondo la concezione del Rambam, nell'aldilà non esistono né
corpo né materia, e, alla stessa stregua, non esistono tutte le
attività che caratterizzano un corpo umano, come mangiare, bere o avere
rapporti carnali. Il Rambam scrive che gli Tzaddikim siedono con le loro corone
sul capo e godono lo splendore della Presenza Divina; in altre parole, la
conoscenza per la quale hanno meritato la vita del mondo a venire sono presenti
e sono la loro corona. La conoscenza della verità è il premio
conseguito per la loro vera fede in Dio durante la vita terrena.
Il mese a Zadina fu di giovamento per la salute del
Morè, che, piano piano, riprese anche a mangiare, pur se con un minimo
appetito, dal momento che aveva subito l'asportazione di gran parte dello
stomaco. Anche la signora Mazal apprezzava il posto di villeggiatura, che
definiva un "gan eden" (paradiso) in terra.
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Di ritorno a Milano, riprendemmo la consuetudine di
frequentare il bar di via Morosini e ascoltare le avvincenti lezioni del
Morè; fu in questo periodo che il Maestro iniziò a trattare il
tema della falsa e pericolosa kabalah spagnola del libro dello Zohar,
falsamente attribuito al grande rabbino d'epoca talmudica, Shimon Bar Yochai.
Mi preme qui aprire una parentesi e spiegare che nell'aprile dello stesso anno,
prima di accompagnare Liat e Moshè in Israele per trascorrere la vacanza
di Pesah a Bat Yam, dai suoceri, il Morè mi aveva commissionato di
cercare il libro "Milhamot Ha Shem" (Le Guerre del Signore) del
saggio yemenita Yihye Shlomoh El Gafeh. Il Maestro mi disse che sarebbe stato
difficile trovarlo e che avrei dovuto cercarlo tra gli ebrei yemeniti dardaim,
che erano contrari allo Zohar. Le cose andarono, infatti, come previde. A Tel
Aviv non lo trovai e mi fu consigliato di cercarlo a Gerusalemme. Ricordo che
nella più grande libreria di testi ebraici religiosi della capitale, mi
dissero che il testo era scomparso dalla circolazione perché messo
all'indice dai religiosi. Il testo di El Gafeh, infatti, è un
componimento ben articolato, che combatte e distrugge le basi teoriche dello
Zohar, considerato dai più un libro sacro. Uno dei commessi, tuttavia,
mi diede l'indirizzo di un certo Zadok, vicino al gruppo dei dardaim
yemeniti, che mi avrebbe potuto aiutare. Questo signore sulla cinquantina
gestiva un negozio di gioielleria nel centro di Gerusalemme. Quando mi
presentai e gli spiegai le ragioni del mio viaggio in Israele, rimase molto
sorpreso e mi disse di possedere una copia del testo originale, pubblicato nel
1931 e, pur essendo molto affezionato al libro, me lo avrebbe regalato con
piacere, in quanto questo "era un chiaro segno dall'Alto". Fu
così che mi invitò a casa sua, durante la pausa pomeridiana, e me
lo consegnò, augurandosi che sarebbe servito ad insegnare ai nostri
correligionari il valore dell'Yihud Ha Shem (Unità di Dio).
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Nelle sue lezioni, il Morè spiegava la differenza
tra la prima fase della kabalah, originata nella Spagna del XIII secolo e la
seconda fase, sviluppatasi in Galilea, nella città di Zefat, due secoli
dopo. La prima, teorica e antroposofica, trattava con ricchezza di particolari
il tema delle anime; la seconda, più mistica e ardita, speculava su Dio,
sulla creazione del mondo e dell'uomo. Nel suo excursus storico, il Morè
arrivava alla conclusione che i noti testi cabalistici di Moshe Cordovero,
Luria, Haim Vital erano, in realtà, un'accozzaglia di idee strampalate e
idolatre, che si fondavano sull'idea blasfema che Dio avesse avuto bisogno di
esternarsi nel mondo reale, attraverso contrazioni (la teoria del zimzum)
ed emanazioni (le celebri sefiroth). Purtroppo, queste teorie balzane
trovarono terreno fertile tra i fedeli e ci furono anche dei movimenti
messianici (Shabatay Zvi in Turchia) e delle scuole di pensiero (il
chassidismo) che le adottarono e ritenevano che lo Zohar fosse da preferire
alle noiose letture della Mishnà e del Talmud. La collera del
Morè verso gli impostori che avevano assurto lo Zohar a testo canonico
dell'ebraismo era da ricercare nel fatto che, in realtà, esiste
sì una vera kabalah, o tradizione, che risale ai tempi dei Patriarchi e,
poi, di Mosè, ma essa è retaggio orale esclusivo di pochi eletti,
che vivono in uno stato particolare di umiltà e di santità. Sod
Hashem leiereav, ossia i segreti di Dio sono per coloro che Lo temono e
rispettano; non certo per coloro che Lo trattano come se fosse un essere umano
con tanto di facce, emozioni e passioni, come fa lo Zohar! Purtroppo, ripeteva
il Morè, l'ebraismo si era inquinato con questi nuovi dèi,
sconosciuti ai nostri Padri e nella cantica finale di commiato, Haazinu,
Mosè già profetizzava (32, 17-19) "(Il popolo)
abbandonò il Signore e Lo offese, Lo fece ingelosire con dèi
stranieri e Lo fecero sdegnare con le loro abbominazioni. Non riconobbero Dio,
sacrificarono ai demoni che non erano Dio, a nuovi dèi venuti di
recente, che i vostri Padri non temettero." Più chiaro di
così!
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Alla fine di agosto, capo mese di Elul, il mese della
misericordia, che precede il Rosh ha Shanà e il Kippur, mio fratello
Renato e sua moglie Paola divennero genitori di un bel bambino, Raffaele. Anche
questa volta, il Maestro ci onorò della sua presenza e fece da sandak
(patrino) alla cerimonia di circoncisione, che venne effettuata dal
chirurgo ebreo Montel il 7 settembre.
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Alla fine del 1981 e agli inizi del 1982 si
intensificarono le nostre frequentazioni con il Morè e il suo primo
allievo Peretz. Al ristretto gruppo della nostra famiglia, si univano,
talvolta, la sorellastra di Stella, Gianna, e suo marito Luigi, un napoletano
verace, militare di carriera, che era dotato di una voce bene impostata, per
cui ci deliziava a fine pasto con tre o quattro canzoni napoletane, che il
Morè apprezzava in sommo grado. Luigi era un tipo affabile e modesto, da
tutti amato in quanto alla mano e ben disposto verso il prossimo. C'era poi
Maurizio Piha, un trentenne di origini egiziane, molto sensibile e
suscettibile, che amava parlare con il Morè in arabo. Qualche volta, si
faceva vivo con la sua chitarra anche Edo, un amico d'infanzia di Gino, che
aveva una salute cagionevole e, poverino, ci avrebbe lasciato qualche mese
dopo, stroncato da un brutto male. Nel nostro gruppo, c'era anche Maria Greca
Puddu, o Miriam, una ragazza sarda, estremamente intelligente, che aveva iniziato
a lavorare da Peretz, facendo la baby sitter e la colf nell'appartamento di
viale Plebisciti. Miriam assimilava con estremo profitto le lezioni di vita
ebraica della famiglia che la ospitava e ben presto si convinse (e il
Morè glielo confermò in seguito) di essere un'anima ebraica che
tornava alle proprie origini. Il processo di conversione durò qualche
anno e culminò con l'ufficializzazione nella sinagoga di Milano, sotto
il mandato del rabbino Laras. Miriam assunse il nuovo nome di Sara. Oggi Sara
è felicemente sposata con Eli Markus, un ebreo di origini canadesi,
conosciuto in Israele; ha tre figli e vive a Calgary, in Canada.
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La tavola, attorno a cui si mangia, è un luogo
sacro e benedetto, dove si trattano argomenti che hanno a che fare con
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Il mese di febbraio fu ricco di incontri a casa del
Morè. Ricordo con particolare gioia la ricorrenza di Tu bi Shevat (il 15
di Shevat), la festa degli Alberi, in cui il Morè ci spiegava che
è il tempo del "matrimonio" delle piante e del mondo vegetale,
grazie all'irruenza dei venti che soffiano in questo periodo. Una festa
ecologica ante litteram. In Israele, infatti, si è soliti piantare alberelli
nelle scuole e negli asili. Mio fratello Renato si presentò a casa del
Maestro con un immenso cesto di frutta fresca, abbellito e adornato da diversi
tipi di frutta secca. Un vero spettacolo di colori e profumi, che il
Morè accompagnò con il suo caratteristico
"oohò", esclamazione orientale per esprimere sorpresa mista a
gradimento.
Alla fine del mese, grazie all'interessamento di
papà e mamma, resero visita al Morè la zia Cornelia e lo zio
Marino, arrivati appositamente da Carmignano di Brenta. Lo scopo della visita
era la salute della zia, che soffriva di crisi depressive, accompagnate da
impeti di collera e di furia blasfema, che impensierivano non poco suo marito.
Il Morè si appartò con gli zii e intervenne a suo modo per far
star meglio la zia. Dopo aver fatto quello che doveva fare, il Morè
spiegò che, grazie a Dio, era stata liberata da un ruach ra'à
(uno spirito maligno) di un prete malvagio che si era tolto la vita e aveva
avuto il permesso di entrare in lei e di disturbarla. Ricordo il pianto
liberatorio degli zii e la sensazione di alleviamento che provò
Cornelia, alla fine dell'incontro. Il Maestro diede anche qualche consiglio
alla zia, invitandola ad avere fede in Dio.
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Alla fine di marzo, il Maestro venne nuovamente
ricoverato all'ospedale S. Carlo per sottoporsi alle analisi e alle cure dei
medici, che constatarono un peggioramento nel suo stato di salute generale. Mi
piace qui ricordare la mia cara mamma, che mi preparava dei piccoli spuntini a
base di scaglie di parmigiano, spremute di arancia, pappa reale e quant'altro
potesse giovare alla salute debilitata del Morè. Noi, poi, aggiungevamo
dei cioccolatini al caffè, i Pocket coffee, che gli erano molto graditi.
Nonostante la malattia, che lo indeboliva fisicamente, il Morè continuava
pazientemente a darci lezioni di Torah e a infonderci uno spirito di
serenità e di amore per il creato e per il Creatore. In questo periodo
di estrema sofferenza, Peretz portava avanti la traduzione in italiano del
libro "Milhamot Ha Shem" che concluse il 19 aprile 1982. E' molto
indicativo che all'alba di quello stesso giorno feci un sogno importante (lo
riporto dal mio diario d'allora): "Mi trovo in una sinagoga antica (XVI
secolo) e inizio a pregare. A un certo punto, disturbato dalle preghiere di
alcuni hassidim, mi alzo e urlo a viva voce "chiamo a testimone Dio
per maledirvi a causa del hilul ha Shem (profanazione del Nome)
che fate con le vostre preghiere!" "Come osi maledire in una
sinagoga?" mi apostrofa un vicino. "Perché questo è in
difesa del Nome di Dio" gli rispondo. Sento un gran trambusto intorno a
me, ma noto che davanti a me ci sono due persone anziane con la barba che mi
sorridono compiaciute". Va comunque notato che il Morè fece a tempo
a benedire la traduzione del testo di El Gafeh, dicendo "Questo libro sarà
benedetto".
Il 26 maggio, vigilia di Shavuot, eravamo tutti presenti
per festeggiare a casa del Morè il suo 68esimo compleanno (
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L'indomani, alle ore 15.30, si svolse il funerale nel
Cimitero Israelitico di Milano. Erano presenti una ventina di persone. Il primo
talmid, Peretz, nella sua orazione funebre ricordò prima la
santità del padre del Morè, che aveva trasmesso al figlio i
Segreti della Torah. Poi, rivelò ai presenti che il Morè era uno Tzadik
Elion (un Giusto che si trova ad un livello di santità superiore).
Egli aveva insegnato Torah ad Aden per poi andare a vivere al Cairo, dove era
stato per anni macellatore rituale della comunità cairota. Arrivato a
Milano alla fine degli anni Sessanta, il Morè aveva protetto la
città con la sua presenza. Ricordò ai presenti la sua estrema
umiltà e povertà e il fatto che in una comunità di persone
ricche e benestanti, avesse passato tre giorni digiunando, non avendo i mezzi
per poter comprare qualcosa da mangiare. A questo punto, il rabbino Laras e due
correligionari interruppero Peretz, dimostrando la loro disapprovazione, ma
l'allievo proseguì dicendo che per merito dello Tzadik la
comunità era stata perdonata.
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Ci furono in Israele e in Italia due avvenimenti che
avvennero in concomitanza con la dipartita del Morè. Il 6 giugno, nei giorni
terminali del trapasso, l'esercito israeliano invadeva il Libano del Sud, ormai
in mano dei miliziani di Arafat, per reagire al grave ferimento
dell'ambasciatore israeliano a Londra, Shlomo Argov, e ai reiterati
cannoneggiamenti dell'OLP contro le cittadine del nord della Galilea. Si
trattò di una guerra cruenta, nella quale Zahal arrivò finoa
Beirut per distruggere il quartier generale di Arafat. In effetti, nel Libano
si combatteva già da qualche anno una cruenta guerra civile tra fazioni
ed etnie diverse (cristiani maroniti, sciiti pro siriani, drusi, sunniti,
palestinesi). Israele si ritirò da Beirut due mesi dopo ma occupò
la parte meridionale del paese, che rafforzò con un contingente militare
cristiano (Esercito del Sud Libano). Da questo conflitto Israele uscì
con più di 350 vittime e con un migliaio di feriti. In Italia, invece, i
giorni di giugno videro gli italiani incollati davanti agli schermi televisivi;
in Spagna, infatti, si giocavano i mondiali di calcio e la squadra azzurra,
dopo un inizio incerto, cominciò ad inanellare un successo dopo l'altro,
(storica la vittoria sul Brasile per 3-2 con tripletta di Paolo Rossi)
arrivando in finale contro