Autore: Davide Levi

                          

 

 FRAMMENTI BIOGRAFICI (1950-1982)

 

 

Cosa scrive un uomo di 60 anni quando gli viene chiesto di stendere una sua autobiografia? E ciò che mi ha chiesto Peretz, il mio amico e maestro da più di 40 anni. "E' importante per i posteri" mi ha spiegato "tu sei l'allievo numero 666 del Morè Haim, come nel segno ricevuto. Devi scrivere la tua storia in un modo che avvinca il lettore. Hai un anno per poterlo fare...".

Questa è la premessa, il resto verrà...

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Sono nato a Torino il 15 ottobre 1950, segno della Bilancia. Quarto e ultimo figlio di Remo Levi e Nelda Donà. In effetti, la dualità della Bilancia ha contraddistinto la mia persona, fin dalla nascita. Mio padre, ebreo, milanese di città; mia madre, cattolica (si convertirà in seguito all'ebraismo per profonda convinzione), veneta di campagna. La mia vita, dall'età di 20 anni, si è intrecciata tra Italia e Israele, che ho raggiunto per la prima volta nel 1970 per intraprendere i miei studi di Social Work, all'Università Ebraica di Gerusalemme.

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Sono un uomo di fede. Credo in un Dio Uno e Unico che ha creato il mondo e che governa e giudica le sue creature in modo equo e imperscrutabile. Fin dall'infanzia, non ho avuto dubbi sulla Misericordia e sulla Giustizia del Signore e, nella maturità, grazie agli insegnamenti dei miei mentori, ho imparato a scindere in modo inequivocabile la Maestà di Dio da coloro che proclamano di esserne i Suoi portavoci in terra; in altre parole, preti, imam, rabbini e sacerdoti di altre religioni sono esseri umani fallibili, che saranno giudicati per quello che fanno. Infatti, la lezione principale che ho appreso dal Maestro Haim è che siamo tutti della stessa carne, indistintamente, e che il Buon Dio giudica le Sue creature in base alle loro azioni in vita, a prescindere dal grado di conoscenza acquisito in anni di studio. Sono convinto che se questa concezione fosse adottata dall'umanità intera, vivremmo con minori conflittualità. Del resto, non mi faccio soverchie illusioni: la nostra esistenza si snoda da sempre in scenari in cui agiscono pulsioni contradditorie e antagoniste, forze del bene e forze del male, che esprimono la varietà, la molteplicità e la complessità dell'essere umano, a cui è stato dato il libero arbitrio e la facoltà di agire, quasi sempre, a suo piacimento.

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Lo storico ed ex sindaco di Valdagno, Maurizio Dal Lago, in occasione del Giorno della Memoria, scrisse su "Il Giornale di Vicenza" (27.01.2001) la storia dei miei genitori, che riporto qui testualmente: "Di Giuseppe Donà, falegname a Carmignano di Brenta, lo Stato si ricordava due volte all'anno, quando gli forniva un paio di scarpe ortopediche per via di quei piedi congelati nelle trincee della prima guerra mondiale. Per tutto il resto, per la moglie e i sei figli, niente. Così, per mantenersi in quella decorosa povertà tipica di tante famiglie venete fra le due guerre, in casa Donà dovevano lavorare tutti, anche i bambini, anche Nelda, che era la secondogenita. Lei, nata nel 1923, andò "a servizio" in una famiglia benestante del luogo, i Galloni, che gestivano un laboratorio di camiceria.

Di Abramo Levi, trasferitosi dalla natìa Ancona a Milano ai primi del Novecento, lo Stato si ricordò nel 1938: le leggi razziali di quell'anno, la cui infamia è ancora troppo poco sottolineata, cambiarono la vita della sua famiglia, moglie e otto figli. In particolare, cambiò la vita di Remo, penultimo dei suoi figli. Egli, conclusi gli studi liceali e fatto il servizio militare nel 1935 con il grado di sottotenente, si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. Ma, alla fine del 1938, capì che lui, ebreo, avvocato non lo sarebbe diventato mai. Fatta di necessità virtù, diventò rappresentante di tessuti ed entrò in rapporti d'affari con i Galloni di Carmignano. Poco dopo scoppiò la guerra che cominciò subito ad andare male e che nel '43 andava sempre peggio; anche a Milano le bombe cadevano a grappoli. Remo Levi pensò bene di sfollare chiedendo ospitalità ad Edgardo Galloni, che l'accolse nella sua casa nell'estate del 1943.

Per Nelda fu amore a prima vista. E Remo ricambiò subito, con pari intensità. Testimone d'eccezione di questo legame fu il grande Peppino Meazza, che aveva sposato la sorella di Galloni. Fu un'estate indimenticabile per i due innamorati. E poco importava se a Roma non c'era più Mussolini e, dopo l'8 settembre, nemmeno il Re e Badoglio; la guerra non era forse finita?

Invece i tedeschi erano sempre più vicini e pericolosi, tanto che nell'autunno del 1943 il maresciallo dei carabinieri di Carmignano avvisò il signor Levi che era meglio per lui cambiare aria e magari anche nome.

Il problema del nome lo risolse la signora Teresina Doria di Sandrigo, che nel novembre del 1943 fornì a Remo una carta d'identità in cui il figlio di Abramo Levi si ritrovò ad essere Remo Giannotta, nato a Bari, figlio dei fu Pasquale e della fu Concetta Di Giacomo. Chi poteva infatti sospettare che quel giovane dagli occhi e dai capelli nerissimi e dalla carnagione scura non fosse di origini meridionali? Del resto, non sarebbero certo stati i tedeschi e i fascisti del nord a controllare i dati dell'anagrafe di una città del sud in mano agli angloamericani. Il lavoro della signora Doria fu così perfetto che, miracoli della burocrazia, al S.Ten. Giannotta Remo del fu Pasquale di Bari arrivò dal comando militare provinciale di Vicenza sia il documento attestante che egli era in licenza straordinaria senza assegni, sia l'ordine di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana in piazza Duomo il 30 giugno 1944. Per il cambiamento d'aria ci pensò l'anima giusta di don Giuseppe Belluzzo, parroco di Carmignano, che si trovò a dover nascondere non solo un ebreo, ma anche una cattolica, Nelda, che a nessun costo voleva separarsi dal suo Remo.

Dove trovare di quei tempi un posto sicuro per un ebreo e una cattolica, per giunta neppure sposati? Ma in una canonica fuori mano, meglio se sperduta in montagna, naturalmente. Il giorno di Natale 1943 don Severino Giacomello aggiunse due posti a tavola. Se li era trovati davanti, Remo Levi e Nelda Donà, con una lettera di don Belluzzo che spiegava al confratello la vera situazione della coppia.

Don Severino, parroco di Fongara in comune Recoaro Terme, forse la più povera e sperduta delle parrocchie vicentine, non fece una piega e sistemò la coppia in canonica. Dopo pochi giorni trovò loro una stanza in contrada. Poi per qualche mese li perse di vista, anche perchè i fascisti lo arrestarono con l'accusa di aiutare i partigiani della zona e lo misero in prigione a S. Biagio. Remo Giannotta Levi non ci pensò due volte e andò a trovarlo in prigione, riuscendo a sorprendere anche un parroco come don Giacomello che nel frattempo era stato addirittura denunciato al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.

Il tempo passava e la mamma di Nelda era disperata perchè la figlia le era andata via con un ebreo e a poco servivano le rassicurazioni di don Belluzzo che non poteva certo rivelare il loro nascondiglio. Così per due o tre volte Nelda e Remo scesero da Fongara e, in bicicletta, di notte, raggiunsero Carmignano per farsi vedere dai genitori di Nelda. Ma da dove venivano nemmeno loro lo dissero mai.

A Fongara Remo si integrò così bene con i paesani che alla sera andava a fare filò nelle stalle della frazione. Dovette certo affrontare qualche problema, ma lo superò al meglio; il rosario lo diceva bene e alle litanie dei santi rispondeva sempre e al momento giusto "ora pro nobis", al punto che molti gli dicevano ammirati "Remo, te sì proprio un bon cristian". Altro problema nasceva quando gli offrivano salame, salsicce e sopressa; Remo Levi, a cui la sua religione vietava la carne di maiale, si inventò una dolorosa ulcera che gli consentiva di accettare, tra la preoccupata comprensione dei paesani, solo formaggio.

Nelda era incinta di qualche mese quando i soldati tedeschi di stanza a Valdagno massacrarono nel modo che tutti conoscono i 17 uomini della contrada Borga, situata due km più in basso di Fongara. Era l'11 giugno 1944, una domenica pomeriggio. Qualche ora prima, in un breve scontro a fuoco con alcuni partigiani, era stato ucciso un sottufficiale della marina tedesca, Hermann Gerges, che passava per la contrada insieme con altri tre commilitoni.

Perpetrato l'eccidio a Borga, la "compagnia caccia" tedesca salì a Fongara. Nessuno aveva fatto in tempo a fuggire e ora tutti gli abitanti della contrada erano in ginocchio nel fango, sotto una pioggia battente. I soldati, dopo aver saccheggiato le povere case, spararono raffiche di mitra sopra le teste dei paesani terrorizzati e li lasciarono nel fango per quasi un'ora. Nelda era sicura di morire perchè sentiva alla tempia il freddo della canna di una Maschinenpistolen. Guardò disperata il suo Remo inginocchiato accanto a lei. A quel punto, Remo giocò il tutto per tutto: si alzò e si rivolse deciso all'ufficiale tedesco: "Camerata – gli disse – io sono fascista - ich habe gross Papiren"

E gli mostrò la licenza straordinaria di Remo Giannotta, ufficiale della RSI (il documento gli era arrivato il giorno prima) con la relativa carta d'identità. L'ufficiale della Wehrmacht, tenente Stey, controllò le carte con il tradizionale scrupolo teutonico e, avendo trovato tutto perfettamente in regola, si irrigidì sull'attenti di fronte al figlio di Abramo Levi e lo autorizzò ad uscire dal gruppo insieme a Nelda e, quasi scusandosi, gli disse " A me dispiace uccidere. Io penso alla mia mamma, mi piace tanto ballare con belle ragazze, ma gli ordini sono ordini". Remo non si lasciò commuovere ma, visto che c'era, fece alzare anche una famiglia di Vicenza, quella del prof. Sacchi (con moglie e bambina), di cui era diventato amico.

Poco dopo il tenente Stey, ritenendo forse che per quei 17 italiani innocenti uccisi per vendicare la morte di un soldato tedesco potevano rappresentare un rapporto accettabile, si limitò a minacciare la stessa rappresaglia di Borga contro tutte le altre contrade se si fossero verificate altre uccisioni di soldati germanici. Infine, ordinò ai suoi uomini di bruciare tutte le case del paese.

Il giorno seguente, Remo scese a Valdagno e vendette il suo paletot. Con i soldi ricavati, lui e Nelda lasciarono Fongara e si rifugiarono in provincia di Torino, presso la sorella maggiore di Remo, Bruna Comai. Alla fine del 1944 nacque la loro primogenita, Miriam-Iliade. In seguito, arrivarono anche altri figli, Giordano, Renato e Davide. Remo Levi è morto nel 1994. Nelda Donà Levi vive tuttora a Milano (mia mamma è mancata il 21 febbraio 2009).

Postilla: il 30 giugno 1944 il sottotenente Remo "Giannotta" non si presentò in piazza Duomo a Vicenza per il giuramento di fedeltà alla RSI. Il 3 agosto, però, la sua assenza fu giustificata dal comandante militare della provincia di Vicenza, colonnello G. Tombolan Fava, in quanto l'interessato "era momentaneamente a Torino per ragioni di lavoro", così come gli aveva deferentemente scritto lo stesso Remo "Giannotta" il 6 luglio 1944. Un lampo di folgorante ironia nel buio di tempi calamitosi, quando un ebreo milanese poteva esistere solo come "ufficiale inesistente", ma poteva anche far scattare sull'attenti un ufficiale tedesco e fare "filò", protetto dalle anime giuste di una donna e di due parroci vicentini."

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La storia di Fongara ha accompagnato la mia infanzia e oggi, a distanza di anni, quando mi soffermo a meditare sui nostri destini, ricordo con chiarezza la voce di papà, rotta dal pianto, che raccontava nei dettagli quella miracolosa salvezza e il sogno che aveva fatto qualche notte prima, quando aveva visto la sua cara mamma defunta, che, mordendosi una mano per l'angoscia, gli faceva segno di scappare. In realtà, la nostra vita è piena di episodi significativi, di coincidenze strane, di sogni-segni che ci danno indicazioni su come agire, di fatti che imprimono delle svolte al nostro cammino. Ma noi siamo sempre in grado di capirli? Se si vive in modo superficiale, probabilmente no. Se, invece, facciamo tesoro dei nostri errori e delle nostre esperienze, possiamo raggiungere un grado di saggezza empirica che ci permette di leggere i fatti per poi prendere delle decisioni importanti. Del resto, non siamo certo noi che possiamo indagare le imperscrutabili vie del Signore; accettiamo con amore quello che ci manda e rimaniamo nell'umiltà mentale di comprendere che tutto ciò che avviene ha un suo perché.

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Scrivere per me ha un intento etico e didattico. Non sono un letterato e non ho le capacità e la pretesa di esserlo. Sono dell'idea, però, che la lettura debba arricchire lo spirito; leggere significa anche imparare qualcosa dagli altri e non solo riempire il proprio tempo vuoto. Avrò raggiunto uno scopo se sarò riuscito a stimolare nel lettore la sua capacità di introspezione e di meraviglia per le opere del Signore.

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Ho pochi ricordi della mia prima infanzia, trascorsa a Torino. Ricordo vagamente la Fiat Topolino, che fa da sfondo alle poche foto di famiglia, scattate nei primi anni del Cinquanta. Papà faceva il rappresentante di una ditta di abbigliamento e non doveva guadagnare molto, perché fummo sfrattati per morosità dall'appartamento del signor Marro. Episodio questo che è rimasto bene impresso nella storiografia della famiglia e che la mamma ricordava con ricchezza di particolari; di come si fosse avventata sul padrone di casa e lo avesse tempestato di pugni; di come ci avessero messo per strada con le poche masserizie che avevamo; di come avesse fatto dei buchi sui muri per vendicare quell'inumano e impietoso sfratto. Altri tempi, si dirà. Oggi nessuno si sognerebbe di mettere per strada una famiglia con quattro bambini piccoli. Quello sfratto, tuttavia, ebbe effetti positivi, in quanto obbligò mio papà a cambiare aria e a cercare fortuna nella sua Milano, pronta ad accogliere masse di immigrati dal Veneto e dal Meridione in cerca di un'occupazione dignitosa.

Un altro ricordo vago ma significativo, arricchito dalla ricchezza di particolari che mi ha fornito mia sorella Iliade, è riferito al morbo del verme solitario che mi debilitò fortemente per alcuni mesi all'età di 4 anni. Ricordo solo che le mie feci erano sempre piene di vermi. Dopo aver constatato che i farmaci che mi davano non riuscivano ad eliminare la tenia intestinale, il medico di famiglia mi somministrò un medicinale molto forte, che, a suo dire, avrebbe potuto essere anche letale. Grazie a Dio, funzionò e fui salvo. Ci trasferimmo a Milano nel 1955 e qui i miei ricordi diventano più netti e distinti.

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A Milano trovammo casa per qualche mese in via Albani. C'è ancora una foto nella stanza dei genitori che ci ritrae tutti insieme sorridenti. Le fotografie hanno la virtù di far affiorare ricordi ed emozioni, sensazioni e odori e quella foto di via Albani si associa ad una slot machine del bar sotto casa, al sangue della ferita che mi provocò una scheggia di vetro, penetrata tra le strisce di cuoio dei sandaletti, agli effluvi che provenivano dallo stabilimento dolciario dell'Alemagna, situata a qualche metro da noi. Col tempo i nostri ricordi evaporano ma altri si fossilizzano e rimangono incastonati tra le nicchie della memoria. Il soggiorno in via Albani fu breve; seguirono i cento giorni in via Giambellino, in un complesso di stanzoni che ospitava le famiglie numerose di immigrati che erano in attesa di un alloggio popolare. Erano gli ultimi mesi del 1956 e ricordo le abbondanti nevicate di gennaio, che per noi bambini erano una vera pacchia. Com'era bello giocare a pallone nei campi innevati! L'estrema indigenza che contraddistinse quel periodo della nostra vita non ha avuto effetti deleteri sulla nostra personalità; anzi, quando si cresce nella povertà si impara poi a valorizzare quello che si ha. Se un bambino ha dei genitori che gli inculcano i valori dell'onestà con il loro esempio personale non c'è timore che diventi un delinquente. In via Giambellino venne a trovarci più di una volta nostro cugino Renato Comai, che noi chiamavamo Renato della Ciccia (il nomignolo di zia Bruna, sorella di papà, che era tutt'altro che grassa), per distinguerlo da mio fratello Renato. Nostro cugino era molto legato a papà dai tempi della guerra e il loro rapporto cameratesco annullava i venti anni di età che li separavano. In quel periodo Renato era a militare con il grado di sottotenente e papà, in anni successivi, ci ricordava di come ad ogni visita il nipote amato, da lui definito malach (angelo, in ebraico) gli lasciasse il suo mensile che tornava utile per tirare avanti.

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Una delle lezioni di vita più importanti che abbiamo appreso dal Maestro Haim è quella sulla tzedakà, l'offerta spontanea in denaro che si fa al prossimo. Essa può essere di tre tipi: di argento, di oro e di diamante. La prima, rispettabile e apprezzata, va riferita alla tzedakà concessa ad una comunità o ad un ente pubblico, nella quale a tutti è noto il nome del benefattore. La seconda, intima e personale, rapporta tra di loro chi la fa e chi la riceve. La terza, sublime nella sua essenza, arriva al bisognoso senza che questi ne conosca la provenienza.

In realtà, il termine ebraico tzedakà origina dalla parola tzedek che significa giustizia. La tzedakà è un atto indiretto di giustizia, che ripristina una sorta di equilibrio tra chi possiede e chi non. E' importante però, diceva il Maestro, che l'atto di generosità venga fatto sempre in modo disinteressato e convinto.

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L'ingresso nell'alloggio popolare di via Demonte 4 avvenne nell'aprile del 1957. Si trattava di un nuovissimo complesso di dieci palazzine a 5 piani che dava una sistemazione definitiva ad un centinaio di famiglie provenienti da ogni parte d'Italia. A noi toccò il secondo piano della scala B e un appartamento di tre locali, soggiorno, bagno e cucinino. Ricordo l'immensa gioia della mamma, che per tutto il giorno pianse per l'emozione. Passava da una stanza all'altra, apriva i rubinetti per controllare che ci fosse l'acqua, era entusiasta che la casa fosse luminosa e l'abitato fosse in mezzo al verde. In realtà, la Bicocca era una zona di campagna e a pochi metri da noi si ergeva un cascinale di contadini con mucche e cavalli e tanti orti ben curati.

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L'infanzia in via Demonte trascorse serenamente. Ben presto facemmo amicizia con i nostri coetanei, con i quali giocavamo ore e ore a pallone, a lippa, a cerbottane, a biglie, a figurine. In estate, poi, passavamo intere giornate nella nuova piscina comunale Scarioni. In via Demonte, si giocava a pallone per la strada, perché il passaggio delle autovetture era raro. Il calcio era lo sport più praticato e spesso la nostra squadra andava in "trasferta" nella vicina via Ciriè per fare delle partite che si protraevano per ore e finivano sempre a botte, dal momento che non c'erano arbitri e le interpretazioni su falli e rigori erano del tutto arbitrarie. In verità, le scazzottate che costellavano quelle partite senza fine non erano dolorose ed erano più che altro un bisogno di affermare la propria virilità; non ricordo, infatti, di aver mai visto qualcuno piagnucolare o lamentarsi.

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Nell'ottobre 1956 iniziai a frequentare la scuola elementare. Già in via Albani, papà ci aveva iscritti alla scuola ebraica di via Eupili, perché voleva che acquisissimo un'istruzione ebraica. La scuola si trovava in zona Sempione, nei pressi dell'Arco della Pace, e ogni giorno il pullman della scuola ci prendeva alle sette e mezzo e ci riportava a casa verso le due e mezzo. Non ho ricordi piacevoli degli anni trascorsi alle elementari (dalla prima alla quarta). La mia insegnante, Clara Costa Kopciowsky, era al suo primo anno di insegnamento ed era forse inesperta. Non mi sono mai integrato nella classe e, anzi, posso dire di esserne rimasto emarginato. Ero uno scolaro diligente, ma timido e insicuro e partecipavo poco alle dinamiche interne ed esterne della classe. Alle feste di compleanno dei compagni non venivo quasi mai invitato, anche perché non c'era chi mi potesse accompagnare, né papà avrebbe potuto permettersi di darmi dei soldi per partecipare all'acquisto di regali costosi. E' vero che la scuola è una palestra di vita in cui il bambino affronta da solo le sue prime esperienze ed è indubbio che lasci un segno indelebile sulla personalità. Credo che l'aver sperimentato da bambino il trauma dell'esclusione e dell'emarginazione, mi abbia poi aiutato a provare empatia e solidarietà per le persone deboli, infelici e vulnerabili.

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All'inizio della quinta elementare, che si iniziò nella nuova scuola ebraica di via Sally Mayer, la maestra Kopciowsky decise di trasferire due suoi allievi, Felicia ed io, alla sezione C, che era una quinta sperimentale che accoglieva gli scolari problematici e i profughi provenienti dai paesi arabi e dall'Iran. La nostra insegnante si chiamava Schlumper ed era sposata con un cugino di papà. L'impatto con la nuova classe fu estremamente positivo. La maestra era dolce e paziente; i compagni di classe, quasi tutti in condizioni economiche precarie come le nostre, erano desiderosi di socializzare e di imparare un buon italiano. Studiavo con buon profitto ed ero stato anche prescelto per cantare nel coro della Scuola, che si esibì al teatro Smeraldo per cantare alcune canzoni patriottiche, nel quadro delle celebrazioni per il primo centenario dell'unità di Italia. L'anno scolastico si concluse nel migliore dei modi; ottenni la licenza elementare davanti alla commissione d'esame statale con il massimo dei voti.

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Il 1957 fu per noi un anno fausto, in quanto papà, trovò casa e lavoro presso la ditta Valentino che produceva e vendeva impermeabili da lavoro. Papà entrò subito nelle grazie del signor Valentino, in virtù della sua facondia, del suo savoir faire e della sua bella presenza. Il lavoro prevedeva una quota fissa e un salario che veniva conteggiato in base alle provvigioni maturate. Mamma ricordava sempre il giorno in cui papà aveva firmato il contratto con il signor Valentino ed era tornato a casa con un pacchetto di banconote, concesse come primo acconto per far fronte alle spese di rappresentanza. In realtà, non aveva mai visto tanti soldi in una sola volta. Il lavoro alla Valentino permise a papà di estinguere ogni mese i buffi che aveva accumulato firmando delle cambiali che gli avevano permesso di comprare l'arredamento del nuovo alloggio.

Oggi, a distanza di anni, ripenso con tristezza mista a commozione a quegli anni di stenti, di sacrifici, di duro lavoro, di viaggi in treno lungo tutta la penisola che papà dovette affrontare per regalarci un'esistenza dignitosa. Papà aveva un carattere dolce, amava la famiglia e il suo lavoro, era di indole generosa e altruista e l'attitudine che aveva verso il denaro era quella di considerarlo un mezzo da rispettare ma non un fine a cui votarsi scriteriatamente. "Papà non ci ha mai fatto mancare niente" ripeteva spesso la mamma, quando lo ricordava con nostalgia nei nostri colloqui sul balconcino di casa. E, aggiungo io, mai ci ha fatto pesare il suo sostegno tempestivo e immancabile. Era papà che mi sganciava qualche deca (come si diceva in quegli anni) quando studiavo al liceo; era papà che mi pagava i viaggi per e da Israele, quando ero studente; era papà che mi mandava dei bonifici bancari in Israele, quando lanciavo degli SOS; fu papà che mi pagò le spese del primo matrimonio con Liat; era papà che mi pagava l'affitto e le spese per tirare avanti a Parma, quando eravamo in tre; era papà che mi pagava il canone di affitto a Concorezzo; era papà che ci pagava la vacanza all'Hotel Meeting di Zadina di Cesenatico; e potrei continuare con ancora tanti era papà... E anche mia sorella Iliade e i miei fratelli Giordano e Renato avrebbero tanti episodi da aggiungere alla lista. E non è che papà fosse ricco...anzi. Semplicemente, amava aiutarci e lo faceva con la massima disponibilità e spontaneità. Papà aveva sperimentato in prima persona la miseria del trovarsi senza una lira e per questo non esitava a dare una mano a chi ne aveva bisogno. E poi, essendo uomo di fede, ma non praticante, capiva l'importanza della tzedakà, del dare disinteressato per aiutare il prossimo.

Nella scala di fronte a noi, ad esempio, abitava Girolamo Forti, un anziano ebreo veneziano, diventato cieco con l'età, che faceva l'ambulante, vendendo articoli di merceria e cravatte su un carrettino che trainava la sua giovane moglie Lina. Girolamo aveva avuto figli da donne diverse e in via Demonte era diventato padre di Stella e Umberto, che, crescendo, erano diventati di casa. Nel 1976, poi, Stella avrebbe sposato mio fratello Giordano. Ebbene, papà, che era a conoscenza delle difficoltà economiche della famiglia Forti, non lesinava i suoi aiuti e, puntualmente, mandava loro della carne kasher e dei soldi per fare la spesa al mercatino comunale.

Papà ci teneva molto alla sua identità ebraica e, pur non avendo mai visitato lo Stato d'Israele, era un sionista convinto e fremeva per le sorti dello stato ebraico. Essendo un tipo viscerale e alle volte irascibile non sopportava le menzogne e i commenti astiosi contro Israele e quando li sentiva alla radio o li vedeva in tivù si arrabbiava e inveiva a denti stretti "morto ammazzato...te possino ammazzà", cosicchè si sentivano solo i sibili prolungati della zeta e della esse.

A papà, sopravvissuto agli anni della guerra e dell'odio antisemita, non andava giù che nel mondo ci fossero ancora così tanti detrattori e odiatori del popolo ebraico. Ma, del resto, lo considerava come un morbo inevitabile; ed era emblematico un episodio della sua infanzia in Ancona che era solito raccontarci: aveva 7 o 8 anni e, mentre giocava a calcio, un compagno gli aveva urlato "Levi, passa il balò". A quel punto si era avvicinato un vecchio con il bastone che si era messo a sgridarlo: "Levi? Cosa ssa' da vede'... un abreo che gioga al balo'. Gnanca da morti ve volemo vede..."

E sempre stato così: finchè ci sono gli ebrei ci saranno anche gli antisemiti...

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Alla fine degli anni Cinquanta, la via Demonte aveva cambiato aspetto; dopo i numeri civici 2 e 4 erano stati eretti i complessi del numero 3 e del 6. Ormai non si poteva più giocare a calcio per strada, perché il parco macchine si era arricchito di Fiat 500, 600 e 1100. Papà aveva una Giardinetta di seconda mano con le intelaiature di legno e nei mesi invernali si formavano delle strane escrescenze, che noi chiamavamo "i funghetti". Era una macchina un po' scassata e malandata e mia sorella pregava papà di non andarla a prendere a scuola nel tardo pomeriggio, perché si vergognava e le sue compagne le ridevano dietro. A casa era entrata anche la televisione e non dovevamo più andare al bar di viale Suzzani per vedere "Il musichiere", "Lascia e raddoppia" o le partite della nazionale. Le serate si passavano davanti alla scatola in bianco e nero e dopo il telegiornale e il Carosello, io e Renato andavamo a letto. Venerdì e sabato sera, invece, potevamo stare alzati "fino a tardi", perché l'indomani non dovevamo alzarci alle sei e mezzo. Papà aveva comprato anche il frigorifero e non c'era più bisogno dei blocchi di ghiaccio e la nuova lavatrice risparmiava alla mamma ore di lavaggi e di risciacqui. Anche il telefono si era installato a casa e il mitico 6424197 ha finito di esistere dopo più di 50 anni di servizio, sopraffatto dall'egemonia dei cellulari.   

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Con il tempo tutto se ne va e tutto si cancella, cantava nella sua bellissima canzone in francese Leo Ferrè; e, in realtà, con il tempo i ricordi si offuscano come nebbia novembrina e restano vaghe immagini sfuocate, che, alle volte, riprendono forma se vengono evocate insieme, da più persone. Con l'avvento della tivù, così, molti nostri ricordi personali si associano ad una memoria collettiva e comunitaria. Gli anni Sessanta hanno rappresentato un periodo di grandi sconvolgimenti sociali, talvolta epocali. Basti pensare al boom economico in Italia, alle nuove tendenze nella moda, nella musica, nell'arte, alle novità nel campo medico e scientifico (l'uomo sulla luna, i primi trapianti di cuore, l'uso della pillola, per fare solo qualche esempio).

Essendo io cresciuto in una famiglia dai sani e saldi principi morali, non posso dire di essere stato condizionato da alcune nefaste mode dei tempi. Così non ho mai partecipato a manifestazioni studentesche violente e non sono mai andato a sfrenati concerti pop e rock. Anzi, direi che ho sempre avuto una certa diffidenza e riluttanza verso le mode giovanili e le aggregazioni di massa, che ripetono a pappagallo slogan e frasi fatte. Credo che il senso della critica e l'anticonformismo di pensiero debbano essere delle forme che si manifestano attraverso il linguaggio e il comportamento individuale. Esattamente come diceva Hillel il Vecchio in una sua massima: "Laddove non ci sono uomini, fai in modo di esserlo tu"; un invito questo ad operare con coraggio e ad andare contro corrente quando impera uno sciatto conformismo.

Tornando alla tivù e ai media, è innegabile che essi siano riusciti e riescano ad influenzare e a manipolare le masse, che assorbono passivamente tutto ciò che viene loro propinato, o, al limite, lo filtrano acriticamente con la loro fede politica. Ciò che più spaventa nella società di oggi è l'intolleranza e la violenza ideologica, che tendono ad annichilire e a mortificare ogni forma di dialettica.

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Una volta all'anno, ad agosto, andavamo in vacanza a Carmignano di Brenta, ospiti di zio Marino e zia Cornelia, la sorella maggiore della mamma. Era una vacanza alla buona, che si protraeva per più di tre settimane, ma che nella nostra memoria collettiva è piena di ricordi e aneddoti divertenti. Per due anni, arrivammo al paese con la Giardinetta di papà; era un viaggio che durava alcune ore, con noi bambini, stipati come sardine nel sedile posteriore.

Gli zii ci ospitavano nella loro casetta a due piani, in via dei Ronchi; i genitori nella stanza di Silvana e Brunetta, le nostre cugine, che andavano a dormire nella stanza da basso con mia sorella e noi tre fratelli dormivamo in tre brande posizionate per l'occasione nel solaio, che era il luogo più caldo e meno aerato della villetta. Zio Marino aveva un orto ben curato, che produceva pomodori, melanzane, peperoni, fagiolini, carote e dei vitigni con uva nera framboea. Lo zio sapeva fare anche un buon vino da tavola, il Clinto, che era leggero e lo potevamo sorseggiare anche noi bambini. Papà era il primo a complimentarsi e zio Marino, orgogliosamente, si schermiva "Ah bon, de 'sto vin te pui berne 'na secia chel no te imbriaga gnanca...(puoi berne un secchio che non ti ubriaca)". Alla partenza, poi, papà non mancava di portarlo a Milano in una piccola damigiana.

A pochi passi dalla casa si trovava la barchessa, in cui venivano depositati gli attrezzi dello zio e le damigiane del vino e, sul fondo, il cesso, maleodorante e infestato dalle mosche. In ogni stanza erano appese al soffitto le strisce gialle moschicide, che riducevano in parte il continuo e molesto ronzare dei ditteri, che erano presenti a nugoli, anche perché dietro alla barchessa c'era il letamaio per concimare l'orto e, qualche metro oltre, c'era la stalla dei Chilò, i contadini vicini di casa, da cui ogni mattina gli zii acquistavano il latte appena munto. Mio fratello Renato odiava il latte fresco e preferiva mangiare solo biscotti o pane abbrustolito; a me, invece, piaceva tanto quel liquido denso e caldo che si mischiava con l'Ovomaltina.

Le giornate di agosto erano calde ed afose, ogni tanto rinfrescate da qualche acquazzone serale. Noi bambini ci divertivamo un mondo perché potevamo scorazzare in bici per le stradine di campagna e andare a trovare i nonni e bagnarci nei fossi incontaminati del paese, alla ricerca dei marsoni, piccoli pesci che cercavamo, senza molto successo, di acchiappare dentro dei barattoli di latta. Zio Marino lavorava alla Cartiera di Carmignano e faceva spesso il turno di notte. Era di poche parole, aveva un carattere timido e riservato, e andava in collera solo quando giocava a briscola o a tresette e perdeva, più che altro per l'incompetenza dei suoi compari di squadra. Lui, infatti, si ricordava tutte le carte che erano state giocate. Con papà era legato da un profondo legame di amicizia e da una sorta di soggezione, che, in quegli anni, caratterizzava la gente di campagna nei confronti della gente di città, considerata più istruita e di mondo. Ricordo anche mia cugina Silvana, coetanea di mia sorella, che quando veniva chiamata da papà, rispondeva "comandi!", tipico automatismo dei veneti di qualche generazione fa, retaggio forse di tempi in cui era netto il rapporto tra padrone e servitore. Tutt'altro carattere, invece, aveva zia Cornelia, che era estroversa e vulcanica, spiritosa e spesso volgare, generosa e sincera, che nei momenti di collera mandava tutti a quel paese, santi e papa compresi. Mia zia era una donna piacente e procace, che si vestiva con buon gusto e non disdegnava i gioielli. A me piaceva molto sentirla parlare nel suo dialetto schietto (come la mamma) che riascolto ora con tanta nostalgia quando alla tivù si sentono persone anziane del vicentino o del padovano che parlano con la loro tipica inflessione regionale.

A Carmignano di Brenta, ai primi anni Sessanta, si accompagnava con noi nostro cugino Renato, che trovava alloggio a pagamento in una casa vicina agli zii. Con lui, che aveva una Fiat 850, si poteva andare a fare il bagno nel fiume Brenta, che in estate diventava un luogo di villeggiatura per chi non poteva permettersi una vacanza al mare. A ferragosto, festa dell'Assunta, c'era la sagra in paese e per qualche giorno si allestivano i tipici giochi del luna park: la pista con gli autoscontri, la giostra con i "calci in culo", che girava vertigiosamente e dava il premio a chi riusciva ad afferrare il fiocco teso a mezz'aria, il tiro a segno con i palloncini colorati, il tira-pugni che misurava la forza del cazzotto sferrato. E tutto tra un frastuono di voci e di musiche, di strilli e di richiami, coi ragazzi scamiciati e sudati e le ragazze con le magliette attillate e i capelli cotonati e con i bambini coi mottarelli e i bastoncini di zucchero filato.    

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Mio fratello Renato ed io passammo l'agosto del 1960 nella colonia ebraica della OSE a Riccione. Si trattò della nostra prima vacanza senza genitori, in una località di mare, in compagnia di una cinquantina di coetanei provenienti da varie città d'Italia. Papà ci accompagnò in treno e, al commiato, ci comprò dei giornalini (il Monello. Tiramolla, l'Intrepido) e trenta cartoline postali vuote, raccomandandoci di scrivergliene ogni giorno una. Per noi, assuefatti alla libertà di movimento che ci regalava via Demonte, fu quella un'esperienza traumatica. In realtà, si trattava di una vacanza di tipo militaresco, disciplinata da regole ferree, che eravamo obbligati a rispettare, senza fiatare. Le nostre cartoline postali a casa raccontavano le stesse cose, le cerimonie dell'alza-bandiera, le lunghe passeggiate in pineta e sulla battigia, i brevi bagni in mare, che non dovevano superare il cordone teso dai sorveglianti, i riposi pomeridiani obbligatori, i pasti insipidi a base di maccheroni e patate, le merende con pane e cioccolato, i soliti giochi in spiaggia. L'unico ricordo piacevole fu la sfida a pallone contro la vicina colonia reggiana; fu una partita vera, durata mezz'ora, con tanto pubblico intorno, che perdemmo 6 a 4. E' pur vero che in alcuni episodi della nostra vita, la beffa si aggiunge al danno. Nel nostro caso, alle infelici giornate trascorse nella noia, si aggiungeva la beffa serale, quando ci facevano cantare coralmente "Noi vogliamo tanto bene alla nostra direttrice, direttrice madre cara...". La direttrice era, in realtà, una signora paciosa sulla trentina, di origini libiche, che, tuttavia, interpretava il suo ruolo con la massima serietà e severità.

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Il passaggio dall'infanzia all'adolescenza è, a detta di tutti, un periodo critico in cui si modella la personalità dell'individuo. Gli ebrei, per tradizione, stabiliscono che al compimento del tredicesimo anno, il bambino diventa maggiorenne, per cui è responsabile diretto delle proprie azioni ed entra di diritto nella comunità. Per questo, lo si festeggia in sinagoga con la cerimonia del bar-mitzvà. La bambina, invece, raggiunge la maggiorità quando compie i 12 anni. In realtà, nelle società orientali, i ragazzini di 13 anni sono più maturi fisicamente dei loro coetanei occidentali. A tredici anni, io portavo ancora i pantaloncini corti ed ero glabro in viso e non ricordo i turbamenti di un alto livello di testosterone. Ero anche molto ingenuo a tal punto che non avevo idea di come venissero al mondo i bambini. Le poche informazioni che avevo sulla sessualità provenivano dal linguaggio volgare della strada.

A tredici anni, iniziai a frequentare i campi sportivi della Pirelli, in viale Fulvio Testi, a circa un chilometro da casa nostra. Mi piaceva fare atletica e su un quaderno registravo i miei progressi nel lancio del peso, nel salto in alto e in lungo e nella corsa. Come atleta ero davvero scarso, e le mie fantasticherie olimpiche si infransero subito; dopo che mi iscrissi ad una corsa sui 1000 metri e dovetti ritirami dopo un giro di pista, quando mi accorsi che tutti mi avevano superato. Migliore fortuna, invece, l'ebbi con il calcio, in quanto facevo parte (numero 10) della squadra della Pirelli, che nel 1963 arrivò in finale nel torneo NAGC di Milano. Fu per me un'esperienza indimenticabile. La partita fu giocata all'Arena di Milano e ospite d'onore era Peppino Meazza, che papà rivide e riabbracciò dopo tanti anni. Disputammo l'incontro contro i pari età dell'Inter che ci superarono 1-0.

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A scuola, ero un allievo senza infamia e senza lode. La seconda media, nel 1963, la frequentai insieme a mio fratello Renato, che, respinto per due anni consecutivi, considerava la scuola come una forma di supplizio a cui sottoporsi, suo malgrado. In realtà, la nostra classe mista era un variegato microcosmo di adolescenti inquieti ed indisciplinati, eterogeneo per età e nazionalità, che veniva a scuola poco motivato ma disposto a divertirsi, quando c'erano insegnanti che si prestavano indirettamente al gioco, come il povero professor Hazan, un anziano profugo egiziano, che insegnava storia ebraica in un italiano stentato, infarcito di francesismi. In verità, anche i programmi di studio non stimolavano l'intelligenza e le lezioni di storia, latino e analisi grammaticale erano la quintessenza della noia e dell'inutilità. Quell'anno, poi, fu funestato da una disgrazia terribile: la morte in un incidente stradale di un nostro simpatico compagno di classe, Corrado Friedenthal, nipote del rabbino capo di Milano. L'anno seguente, mio fratello Renato fu convinto da papà a fare un biennio per poi iscriversi all'ORT, l'istituto tecnico che indirizzava e inseriva i giovani nei settori professionali. Io, invece, conseguii la licenza media e nel 1964 mi iscrissi al ginnasio.

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A 14 anni ebbi, con Renato, anche la mia prima esperienza di lavoro retribuita. Si trattava di un lavoro semplice, che si protrasse soltanto per una settimana, durante i giorni della vacanza pasquale e si svolgeva all'interno dei magazzini Marus di piazzale Cordusio. Il lavoro, ottenuto grazie a nostro cugino Renato, consisteva nel distribuire, alle due entrate del negozio di abbigliamento, dei depliant promozionali. Fu qui che conoscemmo il nostro futuro cognato Gino, che vi lavorava da commesso. Aveva un fisico asciutto, vestiva molto elegantemente, ma Renato ed io lo trovammo poco simpatico e un po' spocchioso.

Dopo due o tre settimane ci arrivò con la posta il compenso che consegnammo orgogliosamente a papà. In piazzale Cordusio si arrivava con il tram numero 4, che aveva il capolinea all'Ospedale Maggiore. Il tram era il mezzo di trasporto più usato e noi avevamo a disposizione il 2, il 4 e il 31 per raggiungere il centro di Milano. E' interessante osservare, attraverso i mezzi di trasporto comunali, come sia cambiata da allora la popolazione di Milano. Ultimamente, dopo tanti anni, sono salito su un autobus alla Stazione Centrale e ho avuto modo di constatare come Milano sia diventata una metropoli multirazziale e poliglotta. Se ritorno con la mente agli anni Sessanta, era una rarità sentire per la strada un idioma diverso dall'italiano; oggi, invece, ci sono zone a Milano, dove è vero il contrario.

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In prima ginnasio ritrovai i miei vecchi compagni delle elementari, quelli con cui non avevo legato. Avevo solo un amico, Roby Schirer, che come me era supertifoso del Milan, per cui passavamo molte domeniche a San Siro per vedere le partite dei rossoneri e le magie di capitan Rivera. L'anno scolastico andò veramente male e l'impatto con il greco e l'inglese fu disastroso. Non raggiunsi la sufficienza in ben 5 materie, per cui fui bocciato. Con il cambio della scolaresca e degli insegnanti, l'anno successivo, iniziai ad ingranare e fino alla maturità classica posso dire di essere stato uno studente con un profitto più che sufficiente. Gran parte del merito del mio cambiamento va ascritto alla mia insegnante di latino e italiano, la cara Annetta Levi, che tutti ricordano con affetto e nostalgia. Era un'insegnante di un altro pianeta, per le conoscenze e le nozioni che possedeva della cultura classica e italiana. Sapeva a memoria interi canti della Divina Commedia e quando ci interrogava non aveva bisogno dei libri di testo, perché lei stessa era un'enciclopedia ambulante. Durante il fascismo era stata picchiata e messa al confino, e dopo la guerra era stata tra le prime insegnanti della neonata scuola ebraica. Capelli ricci, occhialuta e strabica, un seno voluminoso che appesantiva il suo incedere a piedi piatti, Annetta Levi era stata tuttavia compensata da madre natura per le sue straordinarie doti intellettuali e le sue eccezionali virtù umane. Attraverso i classici e i letterati, sapeva trasmettere i valori dell'umanità, della dignità umana, della solidarietà. La scuola era la sua vita e gli studenti i suoi figli adottivi. Ricordo la sua felicità quando andammo a trovarla, dopo la maturità, nella sua casetta ad Erba. Restammo con lei per qualche ora, e, al commiato, ci ringraziò emozionata. Modesta e riservata, Annetta Levi aveva la rara virtù, in un insegnante, di rispettare lo studente e di capirne la psicologia. Non alzava mai la voce, ma riusciva, attraverso il registro della voce, ad imporre il silenzio e l'attenzione in classe. Dopo la maturità, la rividi, per l'ultima volta, nel 1983, quando le consegnai in omaggio la traduzione del libro "Milchamot Hashem", l'importante testo di Yihie Shlomo Elkafah contro lo Zohar e la falsa kabalah. Ascoltò con attenzione le mie spiegazioni, mi ringraziò di cuore e disse che l'avrebbe letto con molto interesse.

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L'attaccamento allo Stato di Israele si rafforzò nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. Seguimmo le fasi della guerra alla tivù con i commenti di Arrigo Levi, ebreo modenese che aveva combattuto come volontario a fianco di mio zio Italo nel 1948, quando Israele venne attaccata dai paesi arabi dopo la sua proclamazione di indipendenza. L'esito di quel conflitto fu disastroso per l'Egitto di Nasser e i suoi alleati della Lega Araba, che vennero umiliati dal blitz dell'aviazione israeliana che distrusse al suolo tutti i Mig pronti a decollare dalle loro basi nel Sinai. Ricordo in che modo si passò dall'angoscia all'euforia. David aveva sbaragliato Goliat e in Italia i mezzi di stampa esaltavano le gesta dei generali Dayan e Rabin. Il sostegno per la causa israeliana, tuttavia, durò ben poco. La politica filosovietica del PCI e del PSIUP, la posizione critica del Vaticano verso lo stato ebraico, che aveva occupato anche il quartiere cristiano di Gerusalemme e gli ingenti interessi petroliferi della ENI di Mattei, legato alla DC, in terra egiziana ed araba, fecero sì che la politica estera

italiana nel conflitto medio-orientale diventasse smaccatamente filo-araba. I leader democristiani, Fanfani, Moro, Andreotti, Rumor, pur dichiarandosi "equidistanti" non nascosero mai una certa ostilità verso lo Stato degli ebrei, retaggio questo della loro formazione cattolica ortodossa. A casa, a scuola, in comunità, festeggiamo la vittoria di Israele con grida di giubilo, canti e balli, lodi al Signore. Papà ricordava con commozione la frase che aveva sentito in sinagoga detta da un anziano ebreo del ghetto di Roma: "erano i sei milioni che spingevano...". In realtà, si trattò di un evento miracoloso; il popolo uscito dalle ceneri di Auschwitz e portato al macello come vittima sacrificale, era tornato nella terra dei Padri e si era riscattato davanti a tutto il mondo. E qui, mi preme aprire una parentesi, che è attuale anche ai giorni nostri. Il Maestro Haim scuoteva la testa, in segno di disapprovazione, quando sentiva qualcuno profferire la frase "kol hakavod leZahal", che significa tutto l'onore vada all'esercito di Israele. Non che il Morè non portasse rispetto all'esercito israeliano, anzi, ne era fiero, ma lo disturbava assai il fatto che la lode spettante a Dio soltanto andasse a degli esseri in carne ed ossa. Israele è in esistenza grazie a Dio e non grazie ai suoi carri armati o ai suoi aerei. La fede in Dio deve essere il sustrato delle nostre azioni. L'esercito è un mezzo, la forza militare non è un fine. Israele continuerà ad esistere se saprà mantenere i valori amati da Dio, evocati a più riprese da Mosè e dai Profeti. D'altro canto, il Morè citava spesso anche un verso del Talmud, che dice "lo lismoh al haness", cioè non bisogna contare sul miracolo. In altre parole, bisogna darsi da fare, essere attivi, operosi, produttivi e non aspettarsi favori dal Cielo, assumendo atteggiamenti fatalistici. Aiutati che il Ciel ti aiuta, si dice da noi.

La guerra dei Sei Giorni influenzò anche noi giovani ebrei, desiderosi di conoscere da vicino quel paese. Alla fine del liceo, infatti, la maggior parte della classe se ne andò in Israele e, al presente, siamo rimasti in sei a viverci (di una quindicina che partì).

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Una figura di spicco che incise molto sulla nostra identità ebraica negli anni Sessanta e Settanta fu quella del dottor Raul Elia, amico e coetaneo di papà, che lo conosceva dagli anni dell'infanzia trascorsi in Ancona. Raul Elia aveva studiato Medicina e si era laureato dopo la guerra, ma, praticamente, non l'aveva professata, perché la distrofia muscolare progressiva che gli aveva minato il fisico, lo costrinse a vivere immobilizzato dietro alla scrivania del suo studio. Elia aveva una posizione influente in seno alla comunità ebraica e dal suo ufficio, per molti anni, diresse il Bollettino della Comunità Ebraica, un giornalino mensile che seguiva le vicende della comunità ebraica milanese. Papà, che non aveva avuto un'istruzione ebraica, era molto legato a Raul Elia e lo considerava il suo mentore in fatto di ebraismo. A casa, ricordiamo ancora gli interminabili seder di Pesah, che seguimmo per due o tre anni attraverso le bobine registrate da Raul Elia, che alternava le disposizioni in italiano con le preghiere in ebraico. Erano ascolti che si protraevano fino a tardi e papà pensò bene poi di farne a meno, optando per le letture in italiano.

Da Raul Elia passavamo anche i digiuni di Kippur. Per fare minian, il quorum di dieci maggiorenni necessari per recitare la preghiera in pubblico e suonare lo shofar, alla fine del digiuno, venivamo invitati nell'appartamento di via Teulliè e dalle 14.00 alle 19.00 circa seguivamo la funzione che officiava il solo Elia, che possedeva un'ottima formazione rabbinica. Nel suo angusto studio, si stipavano una ventina di uomini e nel salotto attiguo erano sedute le donne. Raul Elia mi aveva insegnato (anche qui tramite registrazione) a cantare due inni sinagogali e a leggere il brano della Torà della preghiera vespertina, che tratta le unioni sessuali proibite, per cui ero coinvolto direttamente nella lettura e obbligato a seguire l'officiatura.

I digiuni a casa di Elia sono impressi nella nostra memoria familiare, per cui, annualmente, a Kippur, come flash back cinematografici, riafforano i piccoli episodi divertenti, le frasi che hanno fatto epoca, alcuni spezzoni di preghiera, le atmosfere di quei pomeriggi interminabili, gli aliti pesanti, gli sbadigli, la benedizione che ci impartiva papà sotto il suo talled, spremendo nervosamente la testa a chi non stava fermo, il canto liberatorio della neilà, che annunciava la fine prossima del digiuno, i suoni intermittenti e prolungati dello shofar, che suonava il cognato di Raul, Halifì, che compariva verso la fine, dopo essersi fatto una bella dormita ristoratrice, e le fettine di dolce, distribuite dalla sorella di Raul, Enrichetta, a digiuno ultimato.             

Raul Elia è mancato nel 1983, proprio alla vigilia del digiuno di Kippur.

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Nel 1968 incominciai anche un periodo di volontariato all'ANFFAS di Milano, un ente formatosi nel 1966 per tutelare i bambini con handicap fisici e mentali. Ci andavo una volta alla settimana, la domenica mattina. Il volontariato consisteva nel fare compagnia e giocare con bambini e ragazzini cerebrolesi o mongoloidi. Ho un ricordo molto triste di quelle mattine, dove, per la prima volta, venivo a contatto con le sofferenze e le difficoltà di linguaggio e di movimento dei disabili. Si trattò di un'esperienza che mi arricchì nello spirito e mi spinse più tardi, in Israele, a scegliere un indirizzo di studi che privilegiasse l'assistenza ai più deboli e sfortunati. All'ANFFAS ricordo una bambina Down di circa 10 anni che si era innamorata di me e mi teneva la mano in forma ossessiva e manifestava gelosia se mi mettevo a giocare con altri bambini. Per alcuni mesi, prima di partire per Israele, seguii a casa sua M. un giovane cerebroleso di 15 anni, figlio di un tipografo del Corriere della Sera. Gli incontri avevano lo scopo di insegnargli a leggere e a scrivere. Si instaurò fra noi un legame di amicizia e ricordo con commozione la sua letterina che mi arrivò a Gerusalemme con le sue parole autografe di saluto e di ringraziamento.

L'essere sensibili alle esigenze e alle sofferenze del prossimo è una dote che si apprende dai genitori e non dai testi scolastici. Se un bambino ha la fortuna di avere un papà e una mamma che gli insegnano con l'esempio a non concentrarsi solo sui confini angusti del suo mondo ma a considerare anche i bisogni degli altri, ne risulterà quasi sicuramente un individuo con uno spiccato senso civico, altruista e solidale.

Tra gli episodi della mia infanzia mi piace ricordarne uno, particolarmente significativo, che ebbe come protagonista mia mamma. Avevo nove o dieci anni. Era una giornata di pioggia battente e, guardando dalla finestra, la mamma si accorse che, a piccoli passi, bagnato fradicio, procedeva per la via un nostro anziano vicino di casa. La mamma mi chiamò subito e mi disse di scendere con l'ombrello per accompagnare il vecchietto fino a casa sua. Un fatto insignificante in sé, un'azione da boy scout, dirà qualcuno; in realtà, il fatto che io lo ricordi ancora vivamente a distanza di 50 anni, dimostra che anche un episodio di minima entità può aiutare a plasmare un tratto di personalità. Fu quella una vera lezione di vita, in cui una mamma insegnava al figlio il significato della pietà e della solidarietà umana.

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L'acne che così sovente amareggia l'immagine di sé di molti adolescenti non ha risparmiato neppure me. Con l'arrivo della pubertà e le tempeste ormonali che la accompagnano, fanno la comparsa quei maledetti/benedetti brufoli che riducono il viso fino a ieri liscio e imberbe in un magma eruttivo di punti rossi, gialli e neri. Dico maledetti perché abbruttiscono il viso, aumentano la timidezza e riducono l'autostima ai minimi termini; benedetti perché, favorendo l'isolamento, acuiscono l'introspezione e la profondità di pensiero dell'adolescente. Grazie all'acne ho passato molte ore ad ascoltare la musica classica, a leggere i classici, ad interessarmi di Freud e di psicanalisi, ad approfondire alcuni argomenti di filosofia e di ebraismo. L'arrivo dell'estate era vissuto come il miglior antidoto agli inestetismi dei brufoli. L'esposizione al sole e i bagni di mare avevano effetti benefici sulla pelle del viso, che diventava abbronzato e rassodato. E, in effetti, i miei primi corteggiamenti e le mie prime esperienze amorose avvennero nei periodi estivi, trascorsi al mare. A 16 anni, a Numana, una ragazzina di Roma mi insegnò a baciare alla francese e, l'anno successivo a Gabicce mare, una ragazza norvegese di nome Liv non disdegnò le mie eruzioni cutanee, essendo interessata ad altre mie parti anatomiche.

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In concomitanza con il boom economico italiano, anche le nostre condizioni economiche migliorarono; papà aveva ingranato bene alla Valentino e, ogni estate, poteva permettersi di portare tutta la famiglia al mare, per un mese, in pensioni o alberghi a conduzione familiare, immancabilmente sulla riviera adriatica: Sottomarina di Chioggia, Lignano Sabbiadoro (per essere vicini a mio fratello Giordano, che faceva il militare a Casarsa), Rimini, Numana, Gabicce mare. Erano vacanze divertenti e serene, alle quali si aggregava nostro cugino Renato e, per un anno, anche i suoi genitori, zia Bruna (la Ciccia) e zio Rino.

A casa entravano anche i salari di Iliade, che lavorava come segretaria alla ditta Mayer e di Giordano, che, abbondanati gli studi liceali a 15 anni, aveva preferito andare a fare il garzone nella macelleria e salumeria kasher di Tilo Plaut, un rude e burbero ebreo tedesco settantenne, dalla faccia da pugile, che aveva spiccati i sensi dell'onestà e dell'uguaglianza. Plaut non aveva figli ed era sposato con la signora Tilotty, una distinta ebrea svizzera molto formale e ben educata, che, impiegata alla cassa, con le sue buone maniere riusciva a smorzare i toni incandescenti del marito irascibile, che non esitava a mandare al diavolo i clienti ritenuti troppo esigenti o insistenti. Per mio fratello, gran lavoratore e per questo stimato dal suo principale, fu quella un'eccezionale palestra di vita e di lavoro, perché nel negozio di via Poerio imparò molto bene il suo mestiere. Come ogni negozio di alimentari kasher, anche la macelleria di Plaut sottostava alla sorveglianza rabbinica della comunità di Milano e nel 1969 entrò in negozio, come mashghiah (sorvegliante rabbinico) un giovane ebreo ortodosso, dalla folta barba nera, Paul Peretz Green, nato e cresciuto a Newark, USA, che aveva studiato in una yeshiva (scuola rabbinica) Lubavitch, prima a New York e poi a Brunoi, in Francia. Per il suo essere Habad (la setta ebraica che crede che il settimo e ultimo rabbino della dinastia Lubavitch, Mendel Schnerson, morto nel giugno 1994, sia il messia), a Peretz Green venne affidata la sorveglianza del negozio dal rabbino Garelik, il capo dei Lubavitch a Milano, affinchè spiasse e lo informasse sui movimenti e sulle intenzioni di Plaut, prossimo a ritirarsi.

In quello stesso periodo, Peretz era stato scelto come allievo primo dal rabbino Haim Wenna, capo dei 36 Giusti Nascosti, di cui parlerò più avanti. L'incontro voluto dall'Alto e il lavoro sacro del Morè fecero sì che Peretz uscisse per sempre dalla setta Habad e iniziasse a studiare e a servire il Morè per 13 anni consecutivi, fino alla sua dipartita nel giugno del 1982. Grazie all'onestà di Peretz, che rivelò a mio fratello i piani di Garelik, che intendeva appropriarsi della macelleria, si arrivò al novembre

1971, quando i coniugi Plaut vendettero la gestione del negozio a Giordano e andarono a vivere in Israele, a Beit Yitzhak, dove morirono qualche anno dopo.

L'incontro e l'amicizia fra Giordano e Peretz segnerà un punto cardinale nella vita della nostra famiglia.

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Nell'inverno del 1969 Iliade lasciò la casa di via Demonte 4 perché si unì in matrimonio con Gino. La cerimonia venne celebrata al Comune di Milano dal sindaco Aldo Aniasi. Gli sposi andarono ad abitare a Sesto San Giovanni in un appartamento spazioso, che ospitava anche Tullo, il papà di Gino.

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Alla fine degli anni Sessanta, si concluse finalmente la pratica di conversione all'ebraismo della mamma, che era iniziata nel 1962, sotto la reggenza del rabbino Bonfil. Costui, molto ligio all'ortodossia, aveva condizionato la richiesta della mamma ad una conoscenza molto esauriente delle halachot (le regole ebraiche da osservare), per cui le aveva dato un libro voluminoso da portare a casa e studiare. Una volta studiato, le disse, si sarebbe potuta presentare all'esame finale di conversione, davanti ad una commissione rabbinica. La mamma tornò a casa da quell'incontro col rabbino alquanto scorata e amareggiata. Perché i rabbini le ponevano così tanti ostacoli? Non era bastato che avesse seguito papà, braccato dai nazisti, dividendo con lui la stessa sorte? E che i suoi tre figli avessero fatto la circoncisione e studiassero nella scuola ebraica? E che a casa si osservassero le regole alimentari ebraiche, si celebrassero le feste in sinagoga, si digiunasse di Kippur, si mangiasse il pane azzimo a Pesach, ci fosse la mezuzah in evidenza sullo stipite della porta di casa, si accendessero i lumi del sabato e della festa di Hannukah? E che tutti nel nostro rione sapevano che eravamo ebrei? Come avrebbe potuto lei, con un'istruzione di seconda elementare, inoltrarsi in uno studio così complicato e memorizzare tutte quelle norme rabbiniche? No, purtroppo, non ce l'avrebbe fatta, neanche con il nostro aiuto. Quando io, invece, cercavo di convincerla a studiare e le leggevo qualche halachà, lei mi interrompeva, stizzita, e in dialetto mi diceva "Va'eà, va'eà, caro, cossa vuto che me ricorda tutte que'e regoe...". Fortuna volle che Bonfil andò a vivere in Israele e lasciò la cattedra rabbinica di Milano nel 1966 e con l'avvento del rabbino David Schaumann, che noi conoscevamo bene perché era stato anche il preside della scuola ebraica per più di un decennio, la pratica di conversione fu alquanto sbrigativa. Dopo il bagno rituale, alla presenza della moglie del Morè, la signora Mazal, di benedetta memoria, che le fece dire la benedizione di circostanza, una commissione di tre rabbini, presediuta da Schaumann, dopo un esame facilitato, stabilì che la mamma era ebrea a tutti gli effetti. Si chiudeva così una pagina, che per noi fratelli ha sempre rappresentato un aspetto criticabile della religione ebraica, quando viene interpretata secondo i canoni dell'ortodossia. Criticabile, perché in comunità si continuò a dire che noi non eravamo ebrei secondo la halachà, e i fratelli che gestivano la macelleria, per anni dovettero subire soprusi e torti da parte di persone, che sotto la parvenza di un ebraismo ortodosso, si macchiarono del peccato infamante di lashon ha-rà (maldicenza). Non sono pochi i correligionari che pur di osservare i dettagli di una halachà non esitano a infrangere dei divieti molto più importanti. "Medakdekìm bekriat Echà umezalzelìm bekriat Shemà" (sono molto rigorosi nella lettura del libro di Echà – che si legge durante il digiuno di Tishabeav e non è di grande rilevanza – e non si curano della lettura dello Shemà – che è la preghiera cardinale dell'ebraismo che si legge giornalmente-) è scritto nel Talmud a proposito dei bigotti che pur di seguire alla lettera i dettami religiosi perdono di vista i principi fondamentali della Torah. E a tale proposito, vorrei ricordare un episodio significativo avvenuto nel Kippur del 1982. All'epoca, era rabbino capo a Milano il signor Giuseppe Laras.

In quell'occasione, Peretz ed io fummo invitati ad officiare la preghiera nell'oratorio di via Jommelli. Alla fine della preghiera mattutina, si presentò un certo signor Heger, studente israeliano di Medicina a Milano, e, in veste di shaliach (inviato) del rabbino Laras, dichiarò ai presenti che io non potevo alzarmi a Sefer come levita, in quanto gher (convertito). Il pubblico rimase allibito e Peretz, indegnato da quell'ingerenza improvvisa e fuori luogo, si tolse teatralmente il manto di preghiera e scese dalla tevà (il luogo rialzato in cui si officia) e se ne andò via. Io lo seguii. L'inviato di Laras portò avanti la preghiera. Il giorno seguente, Peretz scrisse una lettera ispirata a Laras, in cui gli spiegava che l'alzarsi a Sefer come Cohen o Levi è una consuetudine rabbinica (minhag midrabanan) invalsa nel tempo e che oggi non ha senso indagare sulle genealogie dei correligionari; se i figli del signor Remo Levi (Giordano, Renato e Davide) si erano sempre alzati a Sefer come leviti non aveva alcun senso far cessare una tradizione comunitaria consolidata. Il peccato più grave, scrisse Peretz, era che il rabbino Laras aveva infranto pubblicamente un divieto ben più severo, scritto nella Torah (e quindi midoraita), che è quello di non svergognare e mortificare pubblicamente una persona (la Torah usa l'espressione "non fare impallidire al cospetto della gente il viso del tuo prossimo"). Peretz concludeva scrivendo che quello esposto era il vero din Torah (norma giudiziaria della Torah) e chiedeva al rabbino di scusarsi pubblicamente coi fratelli Levi, revocando quella sua assurda decisione. Suppongo che Laras abbia letto con sufficienza la lettera e l'abbia poi cestinata.

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Il 1970 fu per me un anno storico. Dopo aver conseguito a giugno la maturità classica, cominciai a fare le pratiche all'Agenzia Ebraica (Sochnut) di Milano per andare a studiare in Israele. L'addetto della Sochnut che si occupò della mia pratica era un giovane e atletico ragazzo israeliano, Zvi Dafna, che mi fissò il viaggio di partenza dal porto di Marghera, per il 2 agosto, sulla nave israeliana "Nili". Una volta approdato al porto di Haifa il 6 agosto mi avrebbero condotto all'Università di Bar Ilan, dove avrei iniziato l'ulpan (il corso intensivo di ebraico per nuovi immigrati). Zvi mi assicurò che il biglietto della nave, il corso di lingua e l'alloggio nelle case studenti dell'università erano a carico dello Stato d'Israele.

I preparativi per la partenza furono brevi e concitati. Andai in Questura a fare il passaporto e papà mi portò in banca e mi procurò un libretto di travellers cheques di 1000 dollari, per far fronte alle prime spese. La mamma si prese cura della valigia e la riempì di asciugamani, magliette, camicie e pantaloni ben stirati. In realtà, mi accingevo a intraprendere un percorso del tutto nuovo e sconosciuto, ignaro del futuro ma pronto a nuove esperienze. E qui sorge spontaneo ma d'obbligo l'interrogativo che ho sentito decine di volte, sia in Italia che in Israele: perché hai deciso di andare a vivere in Israele? Innanzi tutto, non si trattò di una decisione, ma di un tentativo di provare qualcosa di nuovo, in cui potessi rapportarmi con la realtà da solo. Secondo, a vent'anni sentii impellente l'esigenza di uscire dalla bambagia protettiva dei miei cari; lasciare casa era un modo diverso per poter maturare. Ci sono figli che lo fanno in modo conflittuale; ma io, mansueto di carattere, preferii farlo con la benedizione dei genitori, che non frapposero ostacolo alcuno. Terzo, è una considerazione che posso fare oggi a 60 anni: volenti o nolenti, è Dio che ci posiziona nel mondo. Concetto questo che non limita la nostra facoltà di scelta, in quanto siamo esseri dotati di libero arbitrio e veniamo giudicati in base alle nostre azioni, ma afferma la presenza e l'intervento di Dio nell'universo. Hakol me-et HaShem, dicono gli ebrei, Kullu min Allah, dicono i musulmani. Non cade foglia che Dio non voglia, dice il nostro proverbio. Io, personalmente, non me lo sono mai chiesto. Se Dio ha voluto che vivessi in Israele ci sarà una ragione, che io non conosco. Le decisioni del Signore sono imperscrutabili e se vogliamo scandagliarle bisogna farlo solo a fini di studio o di autocritica, rimanendo in una condizione di umiltà di pensiero assoluta. Chi siamo noi per poter conoscere o sindacare l'operato del Signore Santo?

E a chi mi chiede se sono andato a vivere in Israele per motivi ideologici, rispondo sì e no. Sì, perché, dopo secoli di persecuzioni, ritengo che gli ebrei debbano avere uno stato in cui vivere, un paese che affonda le sue radici in una storia millenaria, iniziata con un patto fra Dio ed Abramo.

No, perché non credo nell'ideologia del fanatismo clericale ed etnocentrico, che afferma che la terra spetti al popolo d'Israele per grazia ricevuta. La grazia di Dio bisogna meritarsela attraverso le buone azioni, l'osservanza dei precetti e il rispetto degli altri e non basandosi su ciò che è scritto nei testi sacri.

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La partenza per Israele avvenne il 2 agosto 1970. La mattina fu piena di raccomandazioni, di esortazioni, di abbracci e baci. Papà e mamma mi diedero la benedizione e mi accompagnarono con lo sguardo fino a che scomparve la sagoma della 500 di Giordano, che mi accompagnò a Venezia, con la sua prima moglie Maria Rosa (un matrimonio che sarebbe naufragato qualche mese dopo). Arrivammo al porto di Marghera nel primo pomeriggio e la "Nili" della compagnia israeliana Zim salpò alle 18.00. Mi fu assegnata una cabina con letto a castello. Sopra di me, dormiva un signore sulla trentina, di cui ricordo il cognome, Levi, che viaggiava per affari. Era un tipo loquace, brutto fisicamente, che si vantava continuamente delle sue conquiste femminili e, per darne prova, mi mostrava dei preservativi, che teneva pronti in tasca. I miei tentativi di evitarlo spesso fallivano perché a bordo c'erano gruppi affiatati di argentini e uruguayani, in procinto di fare l'aliyah e famiglie israeliane con bambini, per cui risultava alquanto arduo attaccare bottone con qualcuno. La maggior parte della giornata la passavo in piscina, un rettangolo di acqua di minime dimensioni, in cui sguazzavano frotte di bambini scatenati. Avevo portato con me anche un libro di testo Elef milim (1000 parole), che ripassavo per apprendere le prime nozioni d'ebraico moderno, che potevo leggere, ma non parlare e capire.

La notte del 5 agosto avvistammo le luci della città di Haifa. Il capitano informò i passeggeri che l'entrata in porto sarebbe avvenuta nelle prime ore della mattina. La notte la passai in bianco, un po' per l'eccitazione, un po' perché gli olim sudamericani fecero baldoria, con canti e balli. In effetti, all'alba, i motori della nave ripresero a funzionare e l'entrata in porto avvenne verso le 7.00 di mattina. Era una giornata molto calda e afosa. Ben presto mi resi conto che il mio elegante completo beige di cotone e la camicia a maniche lunghe stridevano sotto il solleone israeliano. Una volta sceso a terra, rimasi esterefatto dalla confusione, dal disordine, dalla sporcizia, dal vociare sguaiato dei portuali sudati e scamiciati, che andavano avanti e indietro. L'impatto con la Terra d'Israele fu tutt'altro che idilliaco...Rimasi impietrito, con il mio valigione in mano, per qualche secondo, fino a che mi si avvicinò un omone barbuto in canottiera che mi domandò in ebraico dove fossi diretto. Ani lo mevin, non capisco, gli risposi educatamente in ebraico. Allora mi riformulò la domanda e nel mio stentato e scolastico inglese gli dissi che mi aveva mandato la Sochnut. A quel punto mi accompagnò in un ufficio attiguo, dove si presentò un signore più affabile che mi chiese il passaporto. Osservò tra le sue carte, ma non trovò il mio nome nella lista degli olim. L'impiegato della Sochnut mi disse di attendere. Dopo qualche minuto, arrivò un altro impiegato, che in un linguaggio misto di spagnolo e italiano, mi disse che mi avrebbero mandato a Ruchama, un kibbutz nel nord del deserto del Neghev, che ospitava molti italiani, che mi avrebbero aiutato. Poi mi consegnò la teudat olè (la tessera di nuovo immigrante), che mi sarebbe servita per sbrigare le prime pratiche burocratiche. Dopo aver fatto colazione nella mensa della Sochnut, l'impiegato mi accompagnò alla stazione dei taxi e mi fece salire su una grossa vettura nera, simile a un taxi londinese di una volta. Oltre a me, salì una giovane famiglia di olim uruguagi, marito, moglie e bambina, diretti nella cittadina meridionale di Sderot. Il viaggio durò qualche ora e non fu piacevole. Dai finestrini aperti entrava un'aria infuocata e il paesaggio mi si presentò desolato, brullo, roccioso e infine desertico. Facemmo due brevi soste per mangiare e bere qualcosa e per un lungo tratto di strada riuscii anche a dormire. Dopo aver fatto scendere la famiglia di Montevideo, il conducente, con il quale non riuscii a scambiare una parola, si diresse verso il kibbutz di Ruchama, che raggiungemmo verso le 4 di pomeriggio.

Arrivato nell'ufficio del segretario, finalmente potei parlare in italiano. Costui, di cognome De Benedetti, mi spiegò in breve che il mio soggiorno in kibbutz sarebbe durato un mese circa; in cambio di vitto, alloggio e ulpan, avrei dovuto essere utile alla collettività, raccogliendo le pere all'alba e lavorando nel refettorio. Mi accompagnò quindi nella camerata degli ospiti, dove alloggiava una cinquantina di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo. E qui conobbi Victor Sillam, un mio coetaneo francese, di Marsiglia, di origini tunisine, che mi aiutò a portare la valigia all'interno della camerata, dandomi per primo il benvenuto. Victor è a tutt'oggi uno dei miei più carissimi amici. E di lui avrò modo di parlare più avanti. Il clima torrido, le zanzare nella notte che non mi fecero chiudere occhio e, soprattutto, la levataccia alle 5.00 di mattina per andare nei frutteti a raccogliere le pere, fecero sì che il mio iniziale entusiasmo si azzerasse dopo soli tre giorni. Al quarto giorno, infatti, salutai Victor e mi defilai con l'autobus della mattina che partiva per Tel Aviv.

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A Tel Aviv arrivai il 10 agosto e fui ospite della mia compagna di classe Bianca Moreno, che abitava nel viale centrale Keren Kayemet. Con Bianca abitavano anche la sorella Anita e un'altra compagna di classe, Tania Sachs, la futura mitica portavoce di Vasco Rossi, che era venuta in vacanza ma non intendeva fermarsi oltre. Tel Aviv era già nei primi anni Settanta una città frenetica, dinamica, caotica, aperta alle mode e alle tendenze in voga negli USA e nell'occidente. Ricordo che rimasi sconcertato nel vedere alla vecchia tahanà merkazit (stazione degli autobus) un'edicola underground che vendeva riviste pornografiche. Ben presto mi resi conto che all'interno della società israeliana vivevano e si scontravano molteplici realtà, in uno straordinario e variegato mosaico fatto di laici, agnostici, atei, religiosi ortodossi ed eterodossi, socialisti, socialdemocratici, comunisti, nazionalisti, liberali, polacchi, marocchini, rumeni, yemeniti, tedeschi, bulgari, iracheni. Una versione moderna delle 12 tribù di Giacobbe.

Con le mie amiche andavo quasi ogni giorno alla spiaggia di Tel Aviv, che nel 1970 si presentava come un'accozzaglia disordinata di bambini, giovani e adulti, pigiati in pochi metri quadrati, in un frastuono incessante di voci e grida umane, di palline scagliate a tutta forza da racchette di legno (matkot), di musiche provenienti a pieno volume dalle radioline; con la sabbia scottante, pregna di macchie di nafta e sporca di pannocchie sgranocchiate di mais, avanzi di cocomeri e mozziconi di sigarette.

Lontano dalla cucina ordinata, prelibata e impareggiabile della mamma, imparai qui a conoscere gli hot dog con la senape, le pitot (panini piatti) con dentro i falafel (polpettine di ceci) e le verdure all'orientale, il humus e la tehina, una salsa a base di sesamo, che qualche anno più tardi il mio sistema immunitario avrebbe rifiutato perentoriamente, perché causa di allergia.

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Il 17 agosto decisi di andare all'università Bar Ilan per seguire gli sviluppi della mia pratica. Quando arrivai alla segreteria e mi presentai, la segretaria scartabellò qualche foglio e mi disse dispiaciuta che il mio nome non compariva nella lista di 4 nomi spedita da Milano. Rimasi una volta ancora mortificato: com'era possibile che Jacky, Donia, Sandra e Noemi ci fossero e io no?

Tornando a Tel Aviv, entrai in un ufficio postale con annesse le cabine telefoniche per le chiamate internazionali e telefonai a papà. Gli spiegai che la mia pratica non era stata inoltrata e che sarei tornato a Milano per fine mese. Papà ne fu dispiaciuto ma mi rincuorò e mi disse che mi avrebbe accompagnato da Zvi per dirgliene quattro.

Due lezioni fondamentali che abbiamo appreso più volte dalla bocca del Morè e che sono diventate parte integrante della nostra filosofia di vita sono incentrate su due sentenze del Talmud: kol akabà letovà (= ogni dilazione è a fin di bene) e gam zu letovà (anche ciò è a fin di bene). In altre parole, i contrattempi, gli impedimenti e gli eventi inaspettati, che al momento ci sconcertano o ci fanno andare in bestia, vanno considerati poi a mente fredda, perché possono rivelarsi favorevoli. E, infatti, fu così.

Nelle due settimane che rimasero prima della ripartenza, feci la conoscenza con una liceale ebrea francese, Martine Bensussan, che non disdegnò affatto i miei corteggiamenti e mi invitò a casa sua a Parigi, a settembre o ad ottobre.

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Il ritorno in Italia avvenne in aereo. Si trattò del mio primo viaggio aereo, che affrontai con coraggio ed entusiasmo. In quel periodo, non c'erano voli diretti per Milano, per cui atterrai a Roma e quindi a Linate. In famiglia mi riabbracciarono felici e, dopo qualche giorno, pensai di iscrivermi a Medicina alla Statale.

Papà mantenne la promessa fatta e, ai primi di settembre, mi accompagnò alla Sochnut per denunciare l'incompetenza del signor Dafna, che, appena mi vide, cadde dalle nuvole, sicuro che fossi in Israele e mi assicurò che lui aveva inoltrato la pratica, facendocene vedere le copie. Il disguido era avvenuto in Israele e lui asseriva di aver svolto il suo compito nel miglior modo possibile. E a comprova della sua buona fede, ci promise che mi avrebbe iscritto la settimana stessa all'Università Ebraica di Gerusalemme (e non alla Bar Ilan) e la Sochnut si sarebbe impegnata a pagarmi le spese del viaggio e degli studi. A questo punto, uscimmo rincuorati e il progetto Israele ritornava di attualità. Due settimane dopo, infatti, Zvi Dafna mi convocò nel suo ufficio in corso Europa e mi consegnò il biglietto aereo El Al Milano-Roma-Tel Aviv del 2 novembre e la documentazione da presentare al mio arrivo a Gerusalemme.

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In attesa di ripartire per Israele, accettai l'invito di Martine e, a metà ottobre, andai a trovarla a Parigi per una settimana. Alla Centrale presi il treno delle 22.00 e viaggiai tutta la notte, arrivando alla Gare de Lyon alle 7.00 di mattina. La mia amica mi aspettava tra la folla e appena mi vide mi venne incontro, mi abbracciò forte e mi baciò sulla bocca, con un trasporto amoroso inaspettato. Uscimmo dalla stazione sotto la pioggia e prendemmo la metropolitana per l'undicesimo rione. Era questa la mia prima volta a Parigi, una metropoli che trovai subito affascinante e grandiosa. Martine, che era orfana di madre, viveva in un piccolo appartamento con suo papà e un fratello più grande. Quando arrivammo a casa, mi preparò la colazione e mi invitò a sentirmi a mio agio. Lei mi parlava in francese e io le rispondevo in un lingua che mescolava parole di italiano, francese e inglese. Dal momento che eravamo soli, mi fece intendere che avrebbe gradito lasciarsi andare a baci ed effusioni amorose. La cosa non mi dispiacque e lei ebbe l'accortezza di usare la precauzioni del caso.

Martine fu per me un ottima guida, perché nella settimana del mio soggiorno mi portò in giro per la città e mi fece vedere i luoghi caratteristici della metropoli.

Al commiato alla stazione, mi promise che sarebbe venuta in Israele a trovarmi. Mi disse anche che mi avrebbe scritto in francese e io le promisi di risponderle in italiano. Ma, è risaputo, le promesse sono una cosa e la realtà un'altra. Il nostro carteggio epistolare durò pochi mesi e cessò di esistere, quando io le scrissi, con tutta onestà, di avere un'altra compagna. Martine, tuttavia, mantenne la sua promessa e, l'anno seguente, venne a farmi visita a Gerusalemme e mi confessò di volermi ancora bene.

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Arrivò il fatidico 2 novembre. Questa volta il distacco dai genitori fu più sentito. Papà e mamma capirono che questa esperienza si sarebbe protratta per anni e fu profeta la zia Bruna che previde che in Israele avrei messo su famiglia e non sarei più tornato a vivere a Milano. La scena dei saluti e dei commiati si è ripetuta infinite volte (non ho tenuto il conto dei viaggi Italia-Israele), ma, sempre, nelle attese all'aeroporto, prima del decollo, ho pensato che il proverbio "partire e un po' come morire" racchiude una sacrosanta verità e non è un caso che i commiati si accompagnano al magone e agli occhi lucidi. L'ultimo saluto a papà lo diedi la mattina del 17 aprile 1994 (la morte avvenne il 2 giugno). Papà, come di consuetudine, si fece portare il talled dalla mamma e seduto nella sua sedia di vimini, mi benedisse, mentre io, inginocchiato, sentivo il suo corpo e le sue mani agitarsi e tremare per il Parkinson. Dopo con la mano sinistra si asciugò con il fazzoletto la bava e mi augurò di fare buon viaggio. Ho impressa nella mente l'espressione ultima di papà: lo sguardo fisso e poco espressivo, il senso di impotenza e di rassegnazione, rivelato dal capo reclino e dal corpo abbandonato a se stesso, privo di energie e di difese. Se lasciai papà molto malato ma lucido di mente non fu altrettanto con la mamma, che rividi per l'ultima volta il 28 dicembre 2008 (morì il 21 febbraio 2009), quando era ricoverata all'ospedale di Carate Brianza e ormai il suo linguaggio e la sua comprensione erano compromessi irrimediabilmente dopo i ripetuti ictus. Anche qui riaffora l'immagine di una vecchina rassegnata, priva di forze, in balìa delle volontà altrui; la mamma seduta nella sedia a rotelle, che si osserva le mani e leva lo sguardo inespressivo che si perde nel vuoto, sullo sfondo solenne delle Prealpi innevate. Prima di lasciarla, in quella fredda mattina d'inverno, la salutai, le baciai la fronte e, inginocchiandomi, le baciai le mani che misi sulla mia testa, chiedendomi di benedirmi. Restai così per qualche secondo, mi alzai e le dissi shalom mamma, presagendo che quello sarebbe stato l'ultimo saluto. Lei mi osservò e mi disse ciao. Quando era lucida, la mamma soffriva molto le mie partenze e si commuoveva; allora le dicevo in dialetto non sta' a criare se no te me fe criare anca a mì che aveva l'effetto di farla sorridere, cosicchè la tristezza del commiato si stemperava in una risatina. Resta il fatto, comunque, che anch'io scendevo le scale di casa con il groppo alla gola.

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A Gerusalemme arrivai nel tardo pomeriggio, in una bella giornata di sole. Al minhal hastudentim (l'ente preposto alla sistemazione degli studenti) mi consegnarono le chiavi dello tzrif, la casetta che ospitava 5 studenti, e della stanza, che avrei condiviso con un ragazzo turco di nome Shmuel. Il complesso di casette per studenti si trovava sul monte Scopus, che, passato in mani israeliane dopo la guerra del 1967, era un cantiere a cielo aperto, perché si stava costruendo la sede nord dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Le casette per gli studenti erano circondate da tappeti d'erba e da stendibiancheria a raggiera e c'erano anche un piccolo negozio di alimentari (makolet) e un campo sportivo, dove si poteva giocare a pallacanestro e a calcetto. Le abitazioni erano in asbesto (da qui il nome del complesso, hasbestonim), un materiale, che qualche anno dopo sarebbe stato messo all'indice per la sua elevata tossicità. Ogni casetta aveva tre stanze, un cucinino, un bagno e una doccia. Le stanze erano piccole, fornite di un letto, un tavolino, una sedia, un armadio, uno scaffale e una stufetta a nafta, che si teneva accesa nei mesi invernali, relativamente rigidi a Gerusalemme.

Il mio compagno di stanza, turco di Istanbul, era un ragazzone alto e corpulento, dalla risata grassa e contagiosa, che aveva tapezzato la parete coi colori giallo rossi della sua squadra del cuore, il Galatasaray. Parlava già l'ebraico ed era iscritto al primo anno di Economia. Nei primi mesi, parlai con lui in italiano, che riusciva a capire, dal momento che conosceva molto bene il ladino, la lingua che continuarono a parlare gli ebrei espulsi nel 1492 da Spagna e Portogallo nei paesi che li accolsero, Turchia, Jugoslavia, Grecia e Bulgaria. Gli altri coinquilini erano due studenti israeliani, che i fine settimana tornavano a casa loro e un ragazzo americano hippy, Mitchell, che occupava la stanza singola e ascoltava in modo ossessivo le cassette del festival di Woodstock. L'inverno del 1970 fu particolarmente piovoso e a febbraio cadde due volte la neve. Hasbestonim ospitava studenti ebrei provenienti da ogni parte del mondo; oltre a me, c'erano anche tre ragazze italiane: Laura da Padova, Mirella da Trieste e Miriam da Roma. A casa scrivevo una volta alla settimana e telefonavo sovente dalla posta di via Yaffo, raccontando con entusiasmo le mie esperienze. Settimanalmente, arrivava puntuale l'espresso di papà, spedito da Chiasso, con i ritagli della Gazzetta dello Sport. Papà aveva deciso di imbucare a Chiasso, dal momento che le prime lettere, spedite da Milano, mi erano arrivate dopo 3 o 4 settimane. Papà era solito raccontare che al valico di frontiera di Como, le prime volte i doganieri lo fermavano e gli controllavano la borsa, sospettando che esportasse della valuta in Svizzera. L'atmosfera spensierata e libera di Hasbestonim favorì i flirt tra i giovani residenti; si trattava di amorazzi tanto impetuosi quanto fatui che si accendevano tra le musiche assordanti della piccola discoteca che si apriva il venerdì sera e si spegnevano dopo qualche giorno. Ben presto si formarono compagnie di amici, che avevano nella lingua madre (inglese, francese, spagnolo, turco) l'elemento collante. Io fui più attratto dal gruppo di francofoni e, frequentandoli, imparai a parlare il francese. Ad Hasbestonim ritrovai Victor, conosciuto al kibbutz di Ruhama, e col tempo diventammo amici fraterni. Ai primi di gennaio, cominciai ad uscire con Claudette, una ragazza marocchina di Meknes, che viveva nella casetta accanto con la sorella Eva, e tre ragazze turche, Rivka, Ester e Josette. Fu lei il mio primo vero amore. Claudette era di carnagione scura, aveva gli occhi verdi e i capelli castani, le labbra carnose e i denti bianchi, un corpo slanciato e un seno ben modellato. Era la prima di cinque figli e con la famiglia era immigrata in Israele nel 1969. All'università si era iscritta a Lettere Francesi e, dopo avermi conosciuto, aveva optato anche per la Lingua Italiana, che apprese a parlare e a scrivere con sorprendente velocità.

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La settimana del mio arrivo, cominciai a frequentare la mehinà, l'anno preparatorio organizzato dall'Università Ebraica di Gerusalemme per gli studenti stranieri neo-immigrati o residenti temporanei (come me). La mehinà prevedeva l'ulpan di ebraico e lo studio della storia di Israele. Si cominciava alle 9.00 e si finiva alle 16.00. Le lezioni si tenevano a Salisiana, a pochi passi dalla Città Vecchia, in un edificio, che, in passato, aveva ospitato una scuola di seminaristi salesiani, con la sua caratteristica architettura rettangolare ad archi e colonnati e lo spiazzo centrale, tipica dei chiostri. Per arrivare a Salisiana si prendeva uno sgangherato e vecchio autobus di linea arabo, della precedente gestione giordana, che aveva il capolinea a Shaar Yaffo, la Porta di Jaffa, una delle 4 entrate della Città Vecchia. Nel 1971 non c'era tensione all'interno delle mura della cittadella e anche di notte si poteva raggiungere il Kotel (il Muro del Pianto) e la Moschea di Omar passeggiando per i vicoli arabi senza timore di aggressioni terroristiche, come avvenne nei decenni successivi. Nel quartiere arabo andavo per cambiare i dollari che papà mi spediva all'interno delle lettere o per gustare un buon piatto di spaghetti al ragù da Gino, l'unico ristorante italiano della zona, frequentato da frotte di turisti e gestito da uno scontroso e attempato signore fiorentino. A Salisiana studiavano circa duecento giovani; le classi erano suddivise a livelli e io ero nella classe dei principianti. Durante gli intervalli si potevano sentire tutte le lingue del mondo, perché gli studenti provenivano da più di quaranta nazioni. A me piaceva molto quell'atmosfera cosmopolita e multilingue e credo che la mia passione per le lingue sia sbocciata proprio a Salisiana, dove per la prima volta sentii parlare in finlandese, danese, ungherese, russo, polacco, greco moderno, turco, persiano. A scuola studiavo con profitto e mi piaceva poi continuare nella mia camera con il vocabolario e il giornalino per principianti Lamathil. Ascoltavo con assiduità la radio e mi sintonizzavo la sera sui notiziari in ladino e in francese per aggiornarmi sulle vicende locali. Dopo sette mesi di ulpan avevo una buona padronanza della lingua e agli esami di fine corso ottenni il massimo della votazione. Penso che il metodo di insegnamento all'ulpan abbia poi condizionato anche la mia metodologia dell'insegnamento dell'italiano agli israeliani, soprattutto attraverso il principio che una lingua si insegna senza ricorrere a lingue mediatrici. Se tu insegni l'italiano, devi parlare con i tuoi studenti solo in italiano.

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Ho già messo in rilievo l'atmosfera di libertà sessuale che regnava all'inizio degli anni Settanta nell'ambiente studentesco; i giovani israeliani erano attratti dai modelli americani (promiscuità e amore libero, uso e abuso di droghe e di alcolici, musica rock e psichedelica, abbigliamento trasandato, capelli lunghi, messa in discussione dei valori etici accettati consensualmente). Io, personalmente, ho sempre diffidato delle mode, delle ideologie e degli idoli venerati dalle masse; resta il fatto, tuttavia, che anch'io ero influenzato da quelle nuove tendenze, perché mi ero fatto crescere i capelli, indossavo i jeans, mi scatenavo nelle discoteche e non ero affatto un certosino. Credo che questo clima collettivo di vita sregolata e gaudente, unito all'euforica onnipotenza nei propri mezzi militari abbiano fatto dimenticare ad Israele il proprio patto con il Signore, che quando deve punire le sue creature lo fa con la legge del contrappasso (midà keneghed midà) e nell'ottobre del 1973 l'esercito israeliano fu colto impreparato proprio nel giorno dell'espiazione dagli eserciti arabi e più di 2800 giovani caddero nei campi di battaglia. Le decisioni di Dio sono imperscrutabili e se vogliamo scandagliarle bisogna farlo solo a fini di studio o di autocritica, ho scritto in precedenza. Dopo la guerra e dopo il rapporto Agranat, che esaminò le inadempienze e gli errori di valutazione dei preposti alla sicurezza, avvenne un terremoto ai vertici dello Stato e dell'esercito e anche tra la gente comune si capì che andava fatto un accurato esame di coscienza collettivo.

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Il 2 aprile 1971 mi arrivò per telegramma la notizia della nascita di Pinuccia, la primogenita di Iliade e Gino, che era anche la prima nipotina di papà e mamma. Il nome era per ricordare la mamma di Gino, morta quando lui era nel suo primo anno di vita. A giugno terminai l'anno pre-universitario e la consulente del Minhal hastudentim mi convinse ad iscrivermi alla facoltà di Social Work piuttosto che a quella di Psicologia, come avevo pensato di fare in precedenza. Mi spiegò che già al secondo anno avrei potuto fare lo stage stipendiato in un'istituzione pubblica. A distanza di anni, penso che fu una scelta sbagliata, in quanto l'assistenza sociale si rivelò essere una professione prettamente femminile, e come tale, mal retribuita, pur essendo molto importante dal punto di vista sociale. Infatti, quando iniziai l'anno accdemico a novembre, mi ritrovai tra un mare di ragazze, con una proporzione di 100 a 15. A settembre feci ritorno a casa e nel negozio di via Poerio conobbi Peretz, che, come detto, faceva il supervisore della kasherut per conto di Garelik, il rabbino capo dei Lubavitch a Milano. Ricordo bene che lo vidi al bar vicino, intento a giocare a flipper e dopo, in negozio, quando ci conoscemmo e cominciammo a conversare, mi raccontò una storiella che aveva come morale il concetto che, nel rapporto di coppia, l'uomo deve essere temuto e non sopraffatto dalla donna.

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Tornato in Israele, iniziai gli studi di Social Work all'Università di Ghivat Ram. Mi fu data una stanza, che condivisi con Victor, nella sede di Monte Scopus (Har Hazofim), un nuovo complesso di venti palazzine, che ospitava più di 400 studenti, molti dei quali provenienti dall'estero. Claudette abitava al piano superiore, insieme a sua sorella Eva, cosicchè il nostro rapporto divenne stabile, dal momento che ci vedevamo ogni giorno. Ormai eravamo considerati una coppia a tutti gli effetti e ben presto venni invitato a casa sua, a Zahala, vicino a Tel Aviv, per passare il sabato. I genitori di Claudette, ebrei marocchini tradizionali, non gradivano che la figlia vivesse more uxorio con il proprio compagno; a casa loro mi accolsero come un figlio, ma la madre Henriette, dopo due o tre visite, mi domandò chiaramente se le mie intenzioni fossero serie. Si tranquillizzò quando le risposi che volevo bene a Claudette e che l'avrei sposata dopo gli studi. 

Ad Har Hazofim facevo ormai parte di una compagnia di venti ragazzi, per lo più francofoni, spensierata e godereccia, che amava andare al cinema, in discoteca, ai fast food, a passeggio per le strade del centro e della Città Vecchia.

Gli studi, all'inizio, procedevano con qualche difficoltà, dal momento che riuscivo a capire circa la metà delle lezioni in ebraico e nei seminari di gruppo mi esprimevo con un lessico alquanto limitato. Ricordo che il primo esame, in Sociologia, lo scrissi in italiano e un assistente di origine argentina me lo controllò. Fortunatamente, c'erano delle studentesse che mi aiutavano con i loro appunti riassuntivi e, al termine del primo anno, riuscii a dare tutti gli esami, tranne Statistica e Scienze Politiche.

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Il secondo anno accademico, novembre 1972 - giugno 1973, andò molto meglio del primo. Ormai padroneggiavo l'ebraico e riuscivo anche ad esprimermi in francese e in inglese. Continuavano i contatti epistolari e telefonici con Milano, e la novità era che Renato si era associato a Giordano nel lavoro e nella gestione della macelleria. In realtà, Renato imparò bene e velocemente il mestiere e subentrò al dipendente precedente di Plaut, il signor Sander, che si era ritirato per raggiunti limiti di età e anche perché malato di Parkinson. Il nuovo mashghiah, stipendiato dalla Comunità di Milano, era Yehoshua Elharar, un rabbino di origini marocchine, che aveva studiato a New York in una yeshiva Lubavitch. Il lavoro aveva cominciato ad ingranare e dopo che il proprietario delle mura del negozio, Adolfo Zippel, legato al rabbino Garelik, si era reso conto che non sarebbe riuscito ad impadronirsi della gestione della macelleria mandando via Giordano, benvoluto da Tilo Plaut e sostenuto anche dal presidente della comunità ebraica di Milano, ingegner Jarach, adottò una subdola politica di diffamazione nei confronti dei fratelli, dicendo che non erano idonei a trattare e a vendere carne kasher, in quanto non ebrei secondo l'halachà. I fratelli Zippel non esitarono a dare lo sfratto ai fratelli Levi, con la partenza definitiva di Plaut in Israele, e nel febbraio 1973 dovettero lasciare il negozio di via Poerio.

Alla fine di marzo, venne inaugurato il nuovo negozio di macelleria e salumeria kasher in via Cesare da Sesto. I fratelli, aiutati, in parte, da papà e, in parte, da un sostanzioso finanziamento della Banca Popolare di Milano (ottenuto grazie a una lettera di raccomandazione dell'ing. Jarach), riuscirono ad approntare tutte le attrezzature necessarie per intraprendere la nuova attività in un locale spazioso a due locali e a due vetrate, ubicato in una via a senso unico a pochi metri da viale Papiniano e corso Genova. All'inaugurazione partecipai anch'io, che ero venuto per fare in famiglia le vacanze di Pesah. Con me, c'erano anche lo zio Libero, fratello di papà (che abitava a 500 metri di distanza, in piazza S. Agostino), i genitori, i fratelli, il Morè, Peretz, il rabbino capo Kopciowski e il signor Laniado, un consigliere della comunità. Facemmo un brindisi e il rabbino di Milano fissò la mezuzà all'entrata del negozio. Naturalmente, continuò il boicotaggio da parte di Garelik e dei suoi seguaci, che, del resto, non impediva la normale attività del negozio, che veniva controllato dal rabbino Elharar, che frequentava anche la sinagoga ashkenazita di via Cellini ed, essendo egli persona onesta, rassicurava i correligionari dichiarando che il negozio veniva gestito sotto la più stretta osservanza religiosa.

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Nell'estate del 1973, alla fine del secondo anno di studi, intrapresi il tirocinio nell'ospedale psichiatrico gerosolimitano di Ezrat Nashim, una clinica che ospitava, per lo più, donne di ogni età affette da una vasta gamma di patologie mentali, che i testi di psichiatria etichettavano sotto i termini di isteria, schizofrenia, psicosi e nevrosi. In quel periodo avevo letto anche le "Libere donne di Magliano" dello scrittore psichiatra Mario Tobino, che mi aveva fatto conoscere l'umanità presente nei manicomi e che avrebbe influenzato il mio approccio alla malattia mentale. L'anno seguente scrissi una lettera a Tobino, allegando due mie poesie ed egli mi rispose e mi disse che aveva gradito le poesie e mi incitava a continuare il percorso intrapreso, anche se, aggiunse, ogni anno passato con i malati mentali aggiunge un grano di pazzia alla nostra esistenza. Ezrat Nashim era un istituto di nuova costruzione, a porte chiuse, di cui ricordo vivamente l'afrore del DDT che si sprigionava dai corridoi e dalle camerate e la cappa di calore pomeridiano che aveva il sopravvento sull'aria che smuovevano i ventilatori infissi sui soffitti. Alcune pazienti, sotto l'effetto degli psicofarmaci, vagavano come inebetite lungo i corridoi della clinica e altre erano occupate nella sala di ergoterapia. Il mio stage durò due mesi e, più che altro, ebbe il fine di farmi conoscere la realtà della malattia mentale, attraverso gli intake, le sedute del personale e la lettura delle relazioni degli assistenti sociali. Per me fu un'esperienza interessante e gratificante che mi arricchì umanamente e mi diede l'opportunità di assistere alle dinamiche di gruppo e di imparare ad interagire con le persone affette da sofferenze mentali.

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La sera del 5 ottobre 1973, quando iniziò il digiuno di Kippur, mi trovavo a Zahala, ospite della famiglia di Claudette. L'indomani mattina, andai in una sinagoga di rito sefaradita con il papà e il fratello maggiore della mia amica. La giornata era calda e afosa, ma l'interno dell'oratorio era rinfrescato dall'aria condizionata. Alle 14.00 esatte, l'ululato delle sirene d'allarme (che, in passato, avevo già sentito nei giorni di commemorazione della Shoà e del Ricordo dei caduti in guerra) lacerò l'atmosfera monotona delle litanie sinagogali e il rabbino officiante proclamò che l'allarme indicava un imminente pericolo di guerra, per cui tutti gli uomini sotto le armi avrebbero dovuto subito mettersi in contatto con le loro unità. Ricordo che molti uscirono frettolosamente e anche noi tornammo a casa, perché, in realtà, nessuno se la sentiva di continuare la preghiera. Saliti a casa, accendemmo la radio e ascoltammo, a più riprese, il comunicato del primo ministro Golda Meir, che dichiarava che, alle ore 14.00, i confini meridionali (la linea di fortificazione Bar-Lev lungo il canale di Suez) e settentrionali (le alture del Golan) dello Stato d'Israele erano stati proditoriamente attaccati dall'Egitto e dalla Siria. Tra un comunicato e l'altro, venivano lette le sismaoth, le parole in codice per i riservisti, che dovevano raggiungere immediatamente le loro unità. Nei primi due giorni di guerra, gli eserciti egiziani e siriani riuscirono a sfondare e a provocare centinaia di vittime fra i nostri soldati. La controffensiva israeliana durò più di una settimana e risultò che, al nord, i siriani vennero respinti al di là delle alture del Golan e le nostre forze arrivarono a 40 chilometri da Damasco, che venne bombardata dalle artiglierie. Nel Sinai, le forze di fanteria, comandate da Ariel Sharon, ben coperte dall'aviazione, riuscirono a varcare il canale di Suez, a penetrare in territorio egiziano, arrivando a 101 chilometri dal Cairo e ad accerchiare la terza armata egiziana, che, non ricevendo più rifornimenti, rischiava di venire sterminata da sete, fame e fuoco. Le febbrili consultazioni diplomatiche tra URSS e USA imposero ai contendenti il cessate il fuoco il 24 ottobre. Il conflitto ebbe implicazioni a lungo termine per i paesi che ne furono coinvolti. Il mondo arabo, che era uscito umiliato e sbaragliato dalla guerra del 1967, si sentì appagato dalle vittorie ottenute nei primi due giorni, che inflissero forti perdite al nemico. Per l'Egitto, guidato da Sadat, fu l'inizio di una nuova fase strategica, che l'avrebbe portato sotto l'influenza militare americana e, di riflesso, qualche anno dopo, alla pace e alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Per lo stato ebraico, che pianse la morte di più di 2800 soldati, fu un vero e proprio tzunami; le commissioni d'inchiesta posbelliche misero sotto accusa i vertici governativi, militari e dell'intelligence, rivelandone le omissioni e i gravi errori di valutazione.

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Concluso il digiuno di Kippur, feci ritorno a Gerusalemme con Claudette, che, da qualche giorno, si dimostrava fredda e insofferente ai miei approcci; con grande sincerità mi confessò che si era innamorata di un altro ragazzo, Dudu, di professione meccanico, che veniva a prenderla al lavoro (lei, per mantenersi agli studi, faceva la cameriera al bar Max, nella centrale via Yaffo) con la sua Fiat 500. Fortuna volle che il mio camerata Victor mi fu vicino e mi rincuorò, invitandomi dai suoi a Beer Sheva, anche perché gli studi universitari erano stati sospesi e ogni notte la città veniva semi oscurata e un'atmosfera di scoramento e di mestizia pervadeva le strade della capitale.

Il 10 ottobre Victor ed io arrivammo a Beer Sheva, che nel 1973 era una città in piena espansione edilizia. L'appartamento della famiglia Sillam aveva piccole dimensioni e consisteva di tre stanze, un salotto, cucina e servizi. Oltre a papà Renè, un buon padre di famiglia, che faceva turni massacranti nella locale industria aeronautica, e a mamma Daisy, una straordinaria donna di valore, che lavorava come infermiera all'ospedale Soroka, ci vivevano le quattro sorelle di Victor: Patrice, studentessa di fisioterapia, Marie, liceale, Joyce e Daniela, allieve di scuola media ed elementare. La famiglia Sillam mi accolse a braccia aperte, come un figlio e mi coprì di attenzioni e di cure, riservandomi la camera più grande, che condivisi con Victor. Fui loro ospite per più di un mese e oggi, a distanza di anni, trovo che le parole sono insufficienti per esprimere la mia gratidudine per l'altruismo, la generosità e il senso di ospitalità che contraddistinse quell'atto di vera amicizia. La mia permanenza fu sempre accompagnata da premure, sorrisi e cortesie. Per non parlare della cucina tunisina di mamma Daisy, che imparai a gustare e ad apprezzare, soprattutto nei pranzi sabbatici. Il periodo trascorso a Beer Sheva mi fece ben presto dimenticare "le pene d'amore". La mattina, Victor ed io andavamo all'ospedale Soroka per fare del volontariato, che consisteva nel preparare garze e bende per le centinaia di soldati, che arrivavano feriti dal fronte meridionale. La sera, c'era l'oscuramento parziale e le vetture potevano circolare a fari bassi; qualche volta uscivamo a prendere un gelato alla panna o andavamo a trovare la nonna di Victor, che abitava da sola in una piccola casetta, che di giorno era protetta dall'ombra dei melograni. Le serate trascorrevano davanti alla tivù, che trasmetteva gli aggiornamenti dai campi di battaglia e negli ultimi giorni di guerra, arrivavano notizie non sempre controllate, come quella del ferimento del marito di una cugina di Victor. Un ferimento che si rivelò assai meno grave di quanto paventato. Tuttavia, gli incontrollati passaparola su ragazzi morti al fronte, che caratterizzarono quel periodo, spesso si rivelarono fondati e, purtroppo, alcuni caduti non ebbero gli onori della sepoltura e dei funerali militari.

Quello che è certo è che alla fine della guerra, con 2800 morti, più di 8000 feriti e 300 tra dispersi e prigionieri, non ci fu casa in Israele che non conobbe il nome di una o più vittime. Quando Victor ed io tornammo, a metà novembre, alla casa dello studente, fummo informati che il nostro vicino di stanza, David Kenet, un ragazzo serio, taciturno e riservato, che studiava Economia, era caduto sul fronte siriano.

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A novembre lasciai lo studentato di Har Hatzofim e andai a vivere nel centro di Gerusalemme, in via Itamar Ben Avi, a due passi dalla residenza del Presidente dello Stato. Victor aveva lasciato gli studi di Economia e si era iscritto alla scuola biennale di turismo Tadmor, molto più confacente alle sue doti. Nel nuovo appartamento di due locali, situato al pian terreno, abitavo con Richard Zerbib, mio coetaneo, algerino di nascita e parigino di adozione, che faceva parte del gruppo di amici francofono. Richard era un bel ragazzo, dal fisico atletico e a settembre era diventato papà di un maschietto, Shay, che aveva avuto a seguito di un flirt con Ninon, una procace ragazza belga, che frequentava la nostra compagnia. Il loro legame si sciolse ben presto e Richard, pur riconoscendo la paternità, lasciò all'ex amica la cura del piccolo. Richard si era iscritto alla facoltà di Matematica, ma non studiava con profitto e rare erano le volte che passava qualche ora sui libri. Come persona, Richard, pur sorridente e spiritoso, aveva un carattere chiuso e introverso e nei rari momenti di apertura, confessava di non aver ancora trovato una strada giusta e gratificante da percorrere. L'anno seguente Richard concluse la sua esperienza israeliana e tornò in Francia per lavorare con i suoi genitori, che gestivano un negozio di frutta e verdura a Sucy en Brie, nella periferia parigina.

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Tornata la normalità, a metà novembre ripresi gli studi per frequentare il terzo e ultimo anno accademico (1974-1975) di Social Work, che prevedeva il tirocinio in una delle istituzioni pubbliche affiliate all'università. Io scelsi l'area psichiatrica e, a gennaio, iniziai il tirocinio nell'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul insieme a due compagne di studi, un'israeliana e la padovana Laura Vitali Norsa, che, arrivata nel 1970, aveva fatto il mio stesso percorso di studi. Kfar Shaul era un istituto che era stato costruito su parte delle rovine del villaggio arabo di Der Yassin, che nell'aprile del 1948, era stato teatro di duri scontri tra la popolazione locale araba e i miliziani dell'Irgun, capeggiati da Menachem Begin. L'ospedale, fondato nel 1951, ospitava per lo più sopravvissuti all'Olocausto e pazienti con forme croniche e acute di disagio mentale. Dei sette reparti presenti, due erano chiusi e uno accoglieva pazienti con gravi handicap fisici e mentali. L'ospedale era diretto dal professor Janos Schossberger, un lunatico e geniale psichiatra di origini ungheresi, patito delle opere di Mozart, che, pur aperto alle nuove teorie della psichiatria umanistica, gestiva la cura dei pazienti con metodi tradizionali di contenimento (nel caso specifico, con massicce dosi di psicofarmaci). A Kfar Shaul ho lavorato due anni e avrei tante e varie esperienze da raccontare, tristi, comiche, drammatiche, umane, intime, ma penso che non avrebbe senso farle riafforare alla memoria e metterle per iscritto, se non per puri motivi di narcisismo. In verità, per me la vita lavorativa in un manicomio non fu affatto diversa da quella vissuta tra la gente comune, perché quello che conta è come noi ci rapportiamo con il prossimo; io ho sempre visto nel paziente psichiatrico una persona che bisogna rispettare, come tutte le altre, che va aiutata perché ritrovi il proprio equilibrio interiore.

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Nel gennaio 1974 sperimentai, in prima persona, un'umiliazione, simile ad altre successive, provocata dalla concezione di un certo tipo di ebraismo formalistico e bigotto, che si cura più dell'osservanza che non del rispetto della persona. In quel mese, infatti, la mia compagna di studi e collega di lavoro Laura Vitali Norsa si era iscritta al Rabbinato di Gerusalemme per espletare le formalità di matrimonio con il suo fidanzato Mario Sznejder. Tra le altre pratiche, aveva dato il mio nominativo come suo testimone alla cerimonia della ketubà, la stesura del contratto matrimoniale (che precede la santificazione del matrimonio), in cui lo sposo, alla presenza del padre della sposa, del rabbino e di due testimoni, si impegna a pagare un tot alla sposa, in caso di divorzio. Qualche giorno dopo, Laura, molto dispiaciuta, mi disse che la mia candidatura a far da testimone non era stata accolta dal Rabbinato, che era stato informato dal signor Grosser che il mio status di ebreo era dubbio secondo le regole della halachà. Il signor Grosser, un ebreo ortodosso di origini austriache, che aveva vissuto a Milano e risiedeva da due anni a Gerusalemme, venuto a conoscenza della mia presenza da testimone, era intervenuto di persona per annullarla. Una volta informato, scrissi al signor Grosser una lettera accorata e contenuta nei toni (ero obbligato a rispettarlo, in quanto papà gli era riconoscente perché gli aveva trovato lavoro da Valentino), nella quale censuravo la sua indebita intromissione; con quale diritto si era permesso di mettere in discussione la mia ebraicità, mortificandomi in quel modo. Grosser mi rispose subito, invitandomi a pranzo per chiarire il suo gesto. Nel suo feudo ribadì concetti già noti, in cui mi spiegò di aver agito per evitarmi inutili interrogatori e lui non intendeva assolutamente mancarmi di rispetto o umiliarmi e se così era stato, mi chiedeva scusa. Mi congedai da casa sua con un sorriso e una stretta di mano. Oggi, a distanza di anni, penso di essere stato stupido ad accettare il suo invito; per rompere una cattiva abitudine ci vogliono mezzi estremi e non sorrisi e strette di mano riparatorie. Umiliare e mortificare una persona è molto più grave dell'inadempienza di una regola rabbinica, che spesso è arbitraria e soggetta a varie interpretazioni. Povero ebraismo finchè sarà in mano a coloro che formalizzandosi sulla punteggiatura non riescono più a leggere la frase!

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Dopo l'esperienza sentimentale con Claudette, ebbi qualche flirt con ragazze conosciute all'università e una, in particolare, mi piacque, fisicamente parlando. Era Janine, una ventiduenne di origini rumene, che qualche mese prima aveva perso l'unico fratello, soldato, in circostanze tragiche. Con Janine, molto appariscente, spregiudicata e anche un po' squilibrata, uscii per due o tre mesi, ma fu lei che, a settembre, quando tornai da Milano, non si fece più vedere o sentire, dopo essere partita per gli USA. A ottobre conobbi Adele, una ragazza di Cardiff, molto carina, educata e per bene, che però, per principi religiosi, era contraria ai rapporti prematrimoniali. Ricordo che il 9 settembre 1974, tornando insieme con lei dal cinema, (avevamo visto Night at the opera dei fratelli Marx), trovai affisso sulla porta un telegramma da Milano: erano i genitori che mi annunciavano la nascita di Sara, la secondogenita di Iliade e Gino. Nei giorni seguenti, dopo qualche frequentazione e un tentativo fallito di baciarla, Adele mi disse che se avessi avuto delle intenzioni serie avrebbe avuto piacere a uscire con me stabilmente. Io preferii troncare quel rapporto, in quanto lo trovavo troppo impegnativo e così a dicembre ritrovai la mia libertà.

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Non ricordo esattamente la data. Tuttavia, ricordo che in quel settembre del 1974, prima di partire per Israele, papà mi portò alla sinagoga di via Guastalla perché ricevessi la benedizione del Morè. Quando chiesi spiegazioni a papà, mi rispose che aveva sentito dire che il Morè "è un gran hacham" (saggio) e conosce anche tanti segreti. Fu così che, grazie a papà, ebbi il privilegio di conoscere il Maestro e di riceverne la benedizione. Ricordo che quando entrammo in sinagoga, alla fine della funzione del mattino, vidi il Morè seduto nel suo posto fisso, a ridosso della parete laterale sinistra, vicino alla porta d'uscita. Papà mi presentò e, dopo i convenevoli di rito, chiese al Morè se la data della partenza per Israele, fissata per quei giorni, fosse idonea. Il Morè, dopo un attimo di concentrazione, in cui si guardò l'orologio, sorrise e disse che la data andava bene. Papà chiese poi di benedirmi e il Morè mi mise la mano in testa, che io abbassai, e profferì a bassa voce qualche parola in ebraico. Fu così che lo ringraziammo e lo salutammo e ricordo che anche in tempi successivi papà si premurò di ripetere quest'azione, prima di ogni mia partenza per Israele.

E qui mi preme aprire una parentesi per ricordare un tratto della personalità del mio amato genitore, caratteristico di molti ebrei della sua generazione. Papà era cresciuto in un ambiente secolare e patriottico, che aveva ereditato da suo nonno Moshe, il quale, emancipato dal ghetto di Ancona, si era arruolato con entusiasmo tra le file garibaldine e da suo padre Abramo, che aveva allentato di molto il giogo della tradizione religiosa ebraica (basta vedere i nomi impartiti ai figli: Anna, Lino, Bruna, Libero, Rinaldo, Remo, Italo). Si trattava di un nuovo spirito egualitario e libertario, che faceva dire loro "siamo tutti italiani, siamo tutti uguali". Furono poi le famigerate leggi razziali del 1938 che dimostrarono il contrario, oscurarando quel secolo di emancipazione e di buoni propositi. Papà, pur non avendo ricevuto un'istruzione ebraica, conservava alcuni tratti di identità che gli avevano trasmesso i suoi genitori (più suo padre Abramo che sapeva leggere in ebraico e aveva studiato nel talmud torà di Ancona, che non la mamma Iliade, morta quando lui aveva solo 15 anni). Papà conosceva le parole ebraiche del gergo giudaico (che ci ha trasmesso), recitava a memoria la prima parte dello Shemà Israel, amava festeggiare e celebrare le ricorrenze, andando in sinagoga, era pur sempre attaccato ad un passato che l'assimilazione recente non gli aveva fatto scordare. Pur tuttavia, "ci teneva ad essere iudio" e voleva che anche i suoi figli lo fossero. Per questo aveva fiducia nel Morè, che considerava un hacham, un saggio esperto di Torà, una figura venerabile, propria del suo retaggio atavico. E papà sapeva che la benedizione di un hacham, amato da Dio, aveva il potere di proteggere i suoi figli. E l'intercessione del Morè sarà estremamente importante qualche anno più tardi.

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Il 1975 fu per tutti noi un anno emblematico, contrassegnato da alcuni eventi spiacevoli e drammatici. Il primo riguardò la salute di papà, che, all'età di 59 anni, cominciò a manifestare i primi sintomi del Parkinson, attraverso un lieve tremolìo della mano, che Tullo notò, durante un pranzo domenicale; "ma, Remo, tu tremi!" fu la frase che pronunciò distintamente e all'improvviso, mentre papà sorbiva il suo brodo di pollo. Come le prime note della Quinta di Beethoven, quell'esclamazione, che riecheggia ancora oggi nella nostra memoria collettiva, fu il drammatico preludio di un periodo che, progressivamente, deteriorò la qualità di vita di papà.

Anche la macelleria dei fratelli fu scossa da una serie di episodi che lasciò un segno indelebile sull'intera famiglia. Ho già avuto modo di raccontare il clima di diffidenza e di ostilità nei confronti di Giordano e Renato, portato avanti dal rabbino Garelik, ma mitigato, in parte, dalla supervisione del rabbino Elharar. Gli eventi precipitarono il giorno in cui Elharar decise di andare a vivere in Israele. Pochi giorni prima della partenza, egli entrò nel negozio dei fratelli e accommiatandosi con commozione, perché aveva imparato a conoscerli e a volergli bene, disse che il futuro avrebbe riservato loro dei grossi problemi, perché le maldicenze erano ormai radicate e tutti aspettavano un passo falso per eliminarli; consigliò a Giordano di andare da Garelik e chiedergli di mettere un supervisore tutto il giorno, che fosse presente dall'apertura alla chiusura e tenesse con sé le chiavi del negozio. La proposta di Elharar cadde nel vuoto, in quanto Kopciowski affidò a Peretz la mansione di controllore e di dipendente di Giordano. Il gruppo Habad, capeggiato da Garelik, tuttavia, restò saldamente ancorato al negozio, dal momento che i tre macellatori della comunità ne facevano parte (Gansbourg padre e figlio ed Elmalech). La loro politica di esigere somme elevate per ogni chilo di carne macellata ebbe due conseguenze: la prima di far lievitare in modo sproporzionato i prezzi della carne e del pollame kasher, che diventavano così merce esclusiva per un'utenza ricca e benestante, lasciando ai fratelli dei margini di guadagno minimi; la seconda fu quella di costringere Giordano a chiedere che i macellatori arrivassero dalla comunità ebraica di Roma. Al rifiuto di Kopciowski e dei macellatori stessi che impugnavano la regola rabbinica dell'asagat gvul (il diritto di territorialità ad operare entro i confini della propria comunità), si arrivò al giorno in cui Giordano, esasperato dalla situazione, decise di rivolgersi al Morè, che era stato per decenni lo shohet (macellatore) della comunità ebraica del Cairo. Il Maestro accettò di aiutare i fratelli a condizione che la sua prestazione fosse gratuita. Giordano trovò un macello a Castione di Loira (Treviso), presso la Carinato carni, e per qualche domenica andò con il Morè a macellare. La competenza del Morè era tale che sapeva riconoscere dagli occhi se un animale fosse kasher o meno (va qui spiegato che l'idoneità della bestia macellata si comprova dopo la squarciatura, quando si controlla che i polmoni non abbiano aderenze e le viscere siano intatte, senza tumori o altre anomalie). La carne macellata era così bella, raccontavano i fratelli, che andava subito a ruba e i prezzi erano stati ridotti. Questa nuova situazione durò ben poco e terminò in un giorno d'estate, quando Oded, un nipote israeliano del Morè, che era stato assunto in negozio dai fratelli come aiutante, perché disoccupato, andò in via Cellini e raccontò l'accaduto. La notizia si diffuse in un baleno; Kopciowski risalì al macello, ebbe conferma delle macellazioni "abusive" e lo stesso sabato annunciò ai correligionari in sinagoga che la macelleria di Giordano Levi vendeva carne taref (impura, non macellata secondo le regole ebraiche) per cui era bene che si sbarazzassero delle pentole che avevano cotto quella carne. A sentire quelle parole di biasimo, papà scoppiò in pianto e provò un'umiliazione cocente davanti ai presenti. La settimana stessa il rabbino tolse ai fratelli la teudà (la certificazione di kasherut). Naturalmente, la notizia arrivò anche alla sinagoga di via Cellini, che trovò la conferma di tutto il pattume denigratorio che era stato sparso in quegli anni. Una settimana dopo lo scandalo (come si compiacquero di chiamarlo i nostri denigratori) avvenne un fatto che scosse molte persone, che non esitarono a vedervi un segno dall'Alto. Oded, il giovane israeliano che aveva ripagato la generosità dello zio Haim e dei miei fratelli con un atto di tradimento, morì bruciato con la sua compagna in un orrendo incidente stradale.

A distanza di anni, considerando obiettivamente i fatti, si può concludere che in tutta quella faccenda i fratelli agirono in buona fede ma peccarono di inesperienza e, forse, di superficialità. Se avessero agito con audacia, alla luce del sole, avrebbero potuto affrontare i loro denigratori da una posizione di forza e non di sudditanza psicologica. Se ti comporti bene davanti a Dio non hai da temere il tuo rivale.

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L'azione diplomatica di papà, che fece intervenire il suo amico Raoul Elia, consigliere molto influente in seno alla comunità, ebbe il risultato di far riavere ai fratelli la certificazione rabbinica, concessa nuovamente da Kopciowsky, a condizione che in negozio lavorasse a tempo pieno Shlomo Haddad, il fratello minore di Yehoshua Haddad, anch'egli Lubavitch e rabbino officiante nell'oratorio sefaradita di via Guastalla. Questo Yehoshua era un tipo scaltro, che aveva fatto della kasherut un business milionario; come lui sono molti i rabbini, che dietro una barba lunga e un abbigliamento nero, e, forti della loro competenza in materia, valutano, in primis, il loro tornaconto personale, incuranti della massima dei Padri che mette in guardia i saggi a non fare della Torà "un piccone con cui scavare", un oggetto cioè da usare per trarre profitti personali. D'altro canto, il binomio kasherut-business, che fa arricchire molti ebrei ortodossi, era detestato dal Morè, che lo considerava una vera e propria forma di idolatria al dio Mamon-Denaro e una terribile profanazione del Nome (Hillul HaShem).

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Nella primavera del 1975 conobbi la mia futura moglie, Liat Wishnizky, che studiava Arte a Bezalel, la prestigiosa università di Belle Arti di Gerusalemme. La conobbi attraverso amici comuni; lei abitava in uno spazioso appartamento in via Herzog insieme ad altre tre studentesse, la russa Sonia, l'israeliana Peggy e la cilena Gabriella, che era compagna del mio amico argentino Eugenio. Un giorno che accompagnai Eugenio dalla sua fidanzata (si sarebbero infatti sposati alla fine dell'anno), Gabriella mi presentò Liat, che era intenta a ordinare i suoi quadri. Dopo la presentazione, rimasi nella sua camera e osservai le tele che aveva realizzato; lei mi chiese le mie impressioni e, dal momento che vi vedevo dei paesaggi, raffigurati con macchie sovrapposte di colori, le risposi che il suo stile astratto era indubbiamente interessante. Mi soffermai ancora qualche minuto a scambiare qualche parola e poi me ne andai con Eugenio. Tornando a casa, sulla sua Fiat 124 verde, gli dissi che questa Liat era carina e mi avrebbe fatto piacere se fossimo usciti insieme. Anche Liat disse alla sua amica che non era rimasta indifferente alla mia presenza, per cui combinammo di uscire insieme tutti e quattro. Ricordo che andammo nella Città Vecchia e io, per fare lo spiritoso, caricai Liat su un carretto a due ruote e la trainai per un vicolo poco illuminato, come se fosse un carico di pani arabi, facendola divertire molto. Quando finì la nostra gita notturna e tornammo a casa con l'auto di Gabriella, rimasi sorpreso perché Liat si accomiatò dandomi un bacino in bocca. Ne dedussi che questo era un invito a voler continuare a corteggiarla. E, infatti, iniziammo a frequentarci sempre più assiduamente e così arrivò anche il giorno che Liat mi portò a casa sua, a Bat Yam, per farmi conoscere i suoi genitori: il papà Pinhas, un signore timido e taciturno, sulla sessantina, nato nella cittadina polacca di Chmelno, a cui i nazisti avevano sterminato tutta la famiglia (gli era rimasta soltanto una sorella più anziana, vedova senza figli, che viveva in un ospizio per anziani a Gerusalemme) e la mamma Busia, nata nella cittadina ucraina di Novograd Volinsk, che durante la seconda guerra mondiale aveva vagabondato con sua madre nell'est della Russia, per sfuggire alla fame e ai bombardamenti tedeschi. I due, rimasti soli al mondo dopo la guerra, conosciutisi attraverso un'amica di Busia, avevano deciso di mettere su famiglia, stabilendosi a Lvov (Lvjv, in Ucraina). Dalla loro unione nacquero due figlie, Elisabetta (che in Israele cambiò il nome in Liat), nata il 12 ottobre 1950 e Evgenia (in Israele cambiò il nome prima in Yaffa e dopo in Efi) nata il 3 novembre 1956. Fu nell'estate del 1957 che la famiglia Wishnizky emigrò in Israele, nella torrida cittadina di Beit Shean, approffitando di un tacito accordo tra Unione Sovietica e Israele, finanziato dal Joint ebraico americano, che permetteva agli ebrei della Polonia e dell'Ucraina di andare a vivere entro i confini del neonato stato ebraico. 

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Ottenuta la laurea in Social Work all'Università di Gerusalemme, continuai a lavorare all'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul, non più come tirocinante ma come salariato del Ministero della Sanità. Il modesto stipendio mi permetteva di vivere in modo autonomo, senza chiedere soldi a papà, e così anche di pagarmi il canone di affitto in un mini-appartamento centrale, che condividevo con una ragazza cilena, Mili, che studiava balletto classico. Nell'inverno del 1975 si consolidò la mia relazione con Liat, per cui decidemmo di andare a vivere insieme. Trovammo un appartamento di tre locali in rehov Rabinovitz, nel quartiere di Kiriat Hayovel, che condividemmo con il mio amico Richard e con una ragazza russa di nome Ina, che ospitava spesso il suo compagno israeliano. Questa coppia si rivelò infida il giorno in cui manomise un espresso di papà, spedito da Chiasso, e si appropriò dei 200 dollari inseriti all'interno. I due negarono di aver rubato i soldi, ma alla mia minaccia di denunciarli alla polizia, ammisero il furto e me li restituirono. In quel periodo maturò l'idea mia e di Liat di sposarci, per cui decidemmo di farlo a Milano, nel mese di settembre.

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Il 30 maggio 1976 Giordano e Stella, che era al terzo mese di gravidanza, si sposarono nella sinagoga centrale di Milano. Il 15 dicembre, compleanno della nostra amata mamma, nacque la loro primogenita Debora. Il 13 maggio 1978 venne al mondo Lea, la secondogenita, che, qualche mese dopo, sarebbe stata al centro di una vicenda che avrebbe cambiato la vita di tutta la nostra famiglia.

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Il 19 settembre 1976 anche Liat ed io ci unimmo in matrimonio nel tempio di via Guastalla. Alla cerimonia, oltre ai miei familiari e parenti, erano presenti anche i genitori e la sorella di Liat. Il rabbino Kopciowsky e il cantore sinagogale Eliezer Cohen officiarono le sette benedizioni nuziali. Il rinfresco si svolse nel lussuoso hotel Michelangelo (pagò tutto papà) e tra gli invitati c'erano anche il Morè con la signora Mazal e il suo talmid Peretz con l'ex moglie Rivka, invitati espressamente da papà.

Il viaggio di nozze non fu particolarmente intimo, in quanto si unirono a noi Pinhas, Busia, Efi e una sua amica, Batya, per la prima volta in Italia e quindi desiderosi di visitare le tre più famose città del Belpaese. E, infatti, il nostro itinerario toccò Roma, Tivoli, Firenze e Venezia. Dopo le nozze, Liat ed io decidemmo di fermarci a Milano ed andammo ad abitare in un monolocale di un residence in via Guinizzelli, una laterale di viale Monza, in cui avevano vissuto prima Giordano e Stella.

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Tornato a Milano, mi diedi da fare per trovare un'occupazione come assistente sociale, ma i miei tentativi, sia in ambito comunitario ebraico che comunale, non sortirono esito alcuno. Trovai un lavoretto di tre ore settimanali alla scuola internazionale di via Osoppo, nella quale insegnavo ebraico ai bambini di una clesse in prevalenza israeliani. Inoltre, l'assistente sociale della comunità israelitica mi diede i nominativi di due bambini di famiglie ebraiche iraniane che necessitavano di un'assistenza psico-didattica. Dopo aver contattato le famiglie, decidemmo che mi sarei presentato a domicilio per due volte alla settimana e mi avrebbero pagato come se avessi impartito una lezione privata. Il primo bambino, che aveva 11 anni, soffriva di una forma leggera di autismo e, all'inizio, ebbi difficoltà ad instaurare con lui un rapporto di confidenza. Il suo linguaggio era molto limitato (anche perché i genitori non erano di madre lingua italiana) e, all'inizio, riuscii ad entrare nel suo mondo attraverso il racconto di Mary Poppins, film che lo aveva entusiasmato. L'altro bambino, di 10 anni, era obeso ed affetto da una forma di ritardo mentale, che, tuttavia, non comprometteva la sua capacità di comunicare in modo normale con l'ambiente. Si trattava di un bambino simpatico e sorridente, quasi sempre di buon umore, a cui dovevo insegnare a leggere e scrivere, come se fosse in prima elementare. Il lavoro fu proficuo e il nostro legame si rafforzò con i mesi e, quando dovetti lasciarlo per tornare in Israele, ne soffrì molto.

La nostra situazione economica precaria, il clima uggioso, inquinato e freddo di Milano che intristiva Liat, isolata per ore a casa davanti alla tv, ci fecero prendere la decisione di tornare in Israele. Prima di farlo, però, approfittammo del nostro essere in Italia per fare qualche gita in Europa. Fu così che a Pesah andammo in treno prima a Parigi (dove fummo ospiti per due giorni di Richard Zerbib) e poi ad Amsterdam. A fine giugno, quindi, andammo in Inghilterra e affittammo per un mesetto un appartamento, in Golders Green, vicino alla casa di Victor, che, nella capitale londinese, faceva uno stage in albergheria. Con lui e la sua futura moglie Jill facemmo una bellissima gita nella lussureggiante regione dei laghi (Lake District). Dopo la vacanza d'agosto a Zadina di Cesenatico, località di mare "adottata" per anni dalla famiglia Levi per trascorrervi in serenità le vacanze estive, arrivò l'autunno 1977 che ci riportò a Gerusalemme, dove andammo ad abitare in un bilocale in via Ghedera. Trovai subito lavoro, come assistente sociale: un mezzo impiego all'ospedale psichiatrico di Kfar Shaul e un'occupazione serale all'ospedale Alin, che ospitava bambini disabili e cerebrolesi.

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La situazione di precarietà e di instabilità che contraddistinse la mia vita di quegli anni, associata alle esperienze di lavoro in istituzioni mediche, maturò in me l'idea di studiare Medicina. Questa idea, che era presente al conseguimento della maturità classica, ma era stata accantonata in seguito alla mia partenza per Israele, era rimasta sopita, ma da sempre caldeggiata da papà, che considerava una laurea in Medicina ben superiore ad una in Assistenza Sociale. Quando scrissi a papà che avevo maturato l'idea di andare a studiare Medicina a Parma, la città da me amata fin dall'infanzia (papà mi ci aveva portato più volte nei suoi viaggi di lavoro) e per la cui squadra di calcio avevo sempre tifato fin dal 1957, lui ne fu entusiasta e mi rispose che mi avrebbe aiutato a realizzare questo progetto con tutti i suoi mezzi. Anche Liat, che era rimasta delusa dall'esperienza milanese, si disse pronta ad affrontare questa nuova avventura, che sarebbe potuta durare sei-sette anni. Il soggiorno a Gerusalemme durò esattamente un anno, perché nell'agosto del 1978, rifacemmo le valigie e atterrammo nuovamente all'aeroporto di Linate.

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A Parma arrivammo a fine settembre. Mi iscrissi all'università e trovammo subito casa in via Mordacci 4. Si trattava di un monolocale ristrutturato, di proprietà della famiglia Cugini, che abitava nell'appartamento attiguo e con la quale avevamo un ottimo rapporto, basato sulla stima reciproca e sulla loro gentilezza (ci permettevano di ricevere le telefonate dei genitori da Milano). La città, tranquilla e ospitale, piacque subito a Liat, che la trovava a misura d'uomo, così diversa dall'anonima, cupa e caotica Milano. L'impatto con questa nuova realtà ebbe influssi benefici sulla nostra vita di coppia e Liat si accorse di essere incinta a novembre. Trovammo un ottimo ginecologo, il professor Mansani, che, alla seconda visita, quando venne a sapere che ero studente, rifiutò il pagamento e ci disse che le visite susseguenti sarebbero state gratuite. Cominciai a frequentare l'università con assiduità e a studiare anatomia, chimica, fisica, biologia ed istologia, spostandomi da una facoltà all'altra con una bicicletta di seconda mano, indispensabile in una città come Parma.

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A novembre avvenne il fatto che indubbiamente rappresentò il punto di svolta nella vita della nostra famiglia. Giordano e Stella erano preoccupati perché la loro piccola Lea, che aveva sei mesi, manifestava degli spasmi e delle convulsioni frequenti e uno stato di malessere, di autismo e di irrequietezza generale rallentava il suo normale sviluppo. La pediatra di famiglia consigliò loro di portarla in ospedale e di fare un EEG dal momento che paventava una forma di epilessia infantile. Gli esiti delle analisi in ospedale confermarono quella brutta diagnosi, chiamata Sindrome di West, una forma epilettica dalla prognosi drammatica, letale in molti casi. Anch'io mi affrettai ad andare al reparto di Neurologia Infantile dell'ospedale di Parma e mi permisi di bussare alla porta del primario per fargli qualche domanda. Costui, infastidito dal fatto che mi fossi presentato senza fissare un appuntamento con la segretaria, non si dilungò e confermò che si trattava di una malattia spesso mortale.

Arrivato a Milano, trovai i miei familiari prostrati per la terribile notizia. Fu Peretz a consigliare a Giordano di chiedere aiuto al Morè, dopo che lo aveva informato della terribile diagnosi, confermata anche da un consulto avuto con il prof. Canger, noto neurologo americano. L'indomani, accompagnai Giordano alla casa del Maestro in via Anfossi. Il Morè diede il suo assenso, a condizione, però, che la cosa non venisse divulgata in pubblico.Tornammo a casa rincuorati, con l'intima speranza che Iddio Benedetto avrebbe accolto l'intercessione del Morè per salvare Lea.

L'indomani il Morè, accompagnato dal talmid Peretz, e a digiuno da un giorno, si presentò a casa di Giordano in via Koerner. Chiese di appartarsi nella stanza di Lea. Noi non sappiamo cosa fece lo Zaddik, perché fu a tutti vietato di assistere. Dopo un quarto d'ora, il Morè uscì dalla cameretta dei bambini molto contento ma anche molto provato e disse "Iddio Benedetto ha fatto un miracolo, fuori dalle leggi della natura". In seguito, i genitori di Lea dovettero subire molti interrogatori da parte dei neurologi che si meravigliarono assai in quanto l'EEG presentava dei tracciati nella norma, del tutto diversi da quelli precedenti. "Ma che cosa le avete fatto?" chiese esterrefatto uno dei neurologi presenti.Ci furono anche dei medici che volevano trattenere la bambina in ospedale a mo' di cavia. Il Morè con piglio deciso e autoritario comandò a Giordano e Stella di non portarla più all'ospedale e di rispondere ai medici "E il Signore che ha accolto le nostre preghiere", punto e basta. La piccola Lea accusò ancora qualche convulsione nei giorni successivi, ma, grazie a Dio, la malattia scomparve e il suo sviluppo psico-motorio seguì un corso del tutto normale. "Il miracolo di Lea" fu il punto di partenza di questa nuova stagione che ci stimolò a frequentare il Morè e a diventare suoi allievi.  

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In quell'inverno del 1978 cominciarono le nostre frequentazioni con il Maestro e con il suo primo discepolo Peretz. Si apriva davanti a noi un nuovo mondo, in cui ci veniva presentato un nuovo tipo di ebraismo, per molti versi a noi sconosciuto, luminoso e saggio, aperto al mondo e poco conformista, antico nella sua tradizione ma moderno nella sua interpretazione. Il Morè riusciva a celare la sua vera identità attraverso la sua profonda umiltà e chi lo contattava in modo superficiale o altezzoso pensava di aver di fronte a sé un normale rabbino yemenita. Essere vicini alla kedushà (santità) del Morè, servirlo a pranzo o durante la giornata, sentire le sue lezioni e divrei (parole di) Torah era un previlegio immenso, che spettava a chi lo avvicinava con rispetto e modestia. E' indubbio che la guarigione di Lea influì vistosamente sul mio stile di vita. I viaggi a Milano per sentire le lezioni del Morè si fecero più frequenti e ciò avvenne a discapito delle lezioni tra le aule universitarie di Medicina.

Non che tralasciassi completamente gli studi, in quanto il primo esame che diedi, a marzo, fu quello più impegnativo, di Anatomia (la prima parte era scritta, la seconda, orale, con il prof. Azzali, un parmigiano doc, che era impietoso con chi non conosceva alla perfezione la materia). Ricordo quel giorno piovoso in cui andai con Liat alla bacheca della facoltà per vedere i risultati e la nostra gioia quando accanto al mio numero di matricola comparve il voto "ottimo".

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Il primo giugno 1979 era Shavuot. Ricordo che dopo cena uscii di casa per fare quattro passi nel vicino giardino di via Mordacci. Il campo era punteggiato dalle luci intermittenti di tante lucciole (insetto che a Milano si vedeva a sciami negli anni Cinquanta e Sessanta e poi scomparve a causa dell'inquinamento atmosferico) e il cielo sereno era rischiarato da un quarto di luna. Alzai lo sguardo al cielo e feci una preghiera a Dio chiedendo la Sua protezione per Liat e per il nascituro. Il parto avvenne tre giorni dopo, lunedì 4 giugno, compleanno di papà (compiva 63 anni) e in Italia era il secondo giorno di votazioni politiche. La mattina Liat aveva cominciato a sentire le doglie. Andammo all'Ospedale di via Gramsci ed entrammo in Maternità. Liat venne subito ricoverata e io rimasi in sala d'attesa; dopo qualche minuto, uscì la capo infermiera e mi disse di tornare nel tardo pomeriggio (le avevo, infatti, richiesto di stare vicino a mia moglie durante il parto). Tornato a casa, mangiai qualcosa, guardai un po' di tv e andai a dormire. Mi svegliai dopo due ore e mi affrettai a raggiungere l'ospedale. Quando entrai in sala parto, vidi Liat tutta tremante e pallida, proprio nel momento in cui le estraevano il sacco di placenta sanguinolente. Il neonato era già uscito e strillava forte e l'infermiera me lo fece vedere dicendo "guardi che bel maschietto!". Mi avvicinai a Liat, le strinsi la mano e la baciai sulla fronte. Lei era esausta ma quando le portarono il piccolo riuscì a sorridere e lo carezzò delicatamente. Io fui invitato ad uscire. Mi diressi subito verso una cabina telefonica e chiamai a casa. Mi rispose papà. Avevo la voce rotta dall'emozione e piangendo gli comunicai che gli avevamo fatto un bellissimo regalo per il suo compleanno con la nascita del bambino.     

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La cerimonia della circoncisione, che avviene nell'ottavo giorno dalla nascita, si svolse al Nostro Club di corso Venezia. Il Morè ci fece l'onore di far da padrino e fu lui che tenne il neonato in braccio, nello scranno del profeta Elia, quando il moel Yakoubi fece entrare il piccolo nel patto di Abramo. Al neonato fu dato il nome di Moshe, dietro suggerimento del Maestro; alla cerimonia erano presenti tutti i familiari e anche la mamma di Liat, Busia, di benedetta memoria, arrivata appositamente da Israele. Il nome Moshe non piacque subito a Liat, che lo trovava antiquato, ma ben presto ci si abituò, anche perché, in famiglia, era stato il nome del nonno materno e del mio bisnonno garibaldino. Dopo tre mesi dalla nascita di Moshe, trovammo un nuovo appartamento in via delle Fonderie, a ridosso del Parco Ducale e a cinque minuti dalla stazione ferroviaria, che apparteneva al presidente della minuscola comunità ebraica di Parma, Fausto Levi. Nello stesso stabile abitavano, tra gli altri, in appartamenti diversi, anche la madre anziana del signor Levi, lui stesso con la moglie e le due figlie adolescenti, e una coppia di studenti israeliani.      

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E' indubbio che la nascita del primogenito cambia di molto lo stile di vita dei genitori, che si sentono più responsabili e più dediti alla cura di questa creatura indifesa e vulnerabile. Per Liat fu un impatto positivo, in quanto svolse il suo compito di neomamma nel migliore dei modi; allattava al seno il neonato, lo portava al parco, lo accudiva con la massima cura, aiutata nel primo mese da sua madre Busia, nostra ospite nel mini appartamento di via Mordacci. Per me, le contingenze di quel periodo ebbero effetti contradditori. La guarigione di Lea e la conseguente "scoperta" del Morè e di un nuovo mondo che si apriva al mio spirito, da sempre alla ricerca della verità, fecero sì che lo studio della Medicina non fosse più prioritario. Oggi, a distanza di anni, posso affermare che furono le lezioni col Morè che ebbero l'effetto di forgiare un carattere e una forma mentis che condizionano tuttora il mio comportamento ed il mio rapporto con la vita. Chi ha avuto il merito di frequentare il Maestro ha imparato a trattare il prossimo con la giusta sensibilità, a rispettarlo da una posizione di umiltà, ad ascoltarlo con interesse e pazienza. Ha imparato a lodare il Signore nella buona e nella cattiva sorte, a considerare gli avvenimenti in un'ottica positiva, ad amare Dio e le sue creature, a rifiutare il male e ciò che va contro la natura. Ha imparato ad aiutare e ad avere misericordia dei poveri, dei malati, dei deboli. Ha imparato a considerare simili tutti gli esseri umani, perché "siamo tutti della stessa carne".

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L'anno 1980 fu, non solo per me, un anno di sovvertimenti, di conflitti e di fermenti. A livello mondiale, alle presidenziali americane, i repubblicani ebbero la meglio sui democratici e così alla Casa Bianca l'ex attore d'Hollywood, Ronald Reagan, sostituì lo scarso e incolore presidente Jimmy Carter. Nel Medio Oriente, in Iran, la salita dell'ayatollah Khomeini attizzò vecchi contenziosi sui pozzi petroliferi con l'Iraq di Saddam Hussein, che sfociò in una cruenta guerra, che, protrattasi per otto anni, causò più di un milione e mezzo di morti. In Polonia iniziarono i fermenti antisovietici di Solidarnosc e il sindacato dei cantieri navali di Danzica, capeggiato da Lech Walesa, diventò l'asse centrale di un movimento di dissidenza di matrice cattolica e anticomunista che avrebbe ribaltato il governo centrale filosovietico.

Gli influssi stellari infausti di quell'anno non risparmiarono neppure l'Italia, che dovette far fronte ad un tasso di inflazione elevatissimo, a scandali di varia natura (nel campo industriale, bancario, politico, calcistico), a catastrofi naturali (il terremoto in Irpinia, che fece più di 3.000 vittime con 300.000 senza tetto), ad omicidi di natura terroristica (il docente universitario Bachelet e il giornalista Walter Tobagi vennero assassinati dalle Brigate Rosse), a gravi attentati (la strage di Ustica con lo scoppio in volo di un DC9 dell'Itavia e la bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, che provocarono complessivemente più di 200 morti).

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L'anno 1980 mi fece entrare definitivamente nella cerchia ristretta di allievi del Maestro di Vita, Haim. I miei viaggi a Milano diventarono settimanali e la frequenza ai corsi universitari di Parma andò sempre più scemando. Le sagge e stimolanti lezioni che impartiva il Morè, in modo così informale, al bar di via Morosini, o a casa sua, o ai pranzi e alle cene da Peretz o in casa Levi, erano riuscite ad avere il sopravvento sulle noiose lezioni di chimica e istologia. Una lezione sui ghilgulei haneshamot (i passaggi delle anime) del Morè valeva cento volte il ciclo di Krebs o il percorso degli orbitali degli elettroni. Il Maestro, inoltre, ci insegnava a curare lo spirito e il fisico, come nelle aule accademiche, ma in un modo diverso, che originava dalla saggezza millenaria della tradizione yemenita e talmudica. Per ogni malessere, il Morè aveva un rimedio; si trattasse di dolori addominali, di problemi nella sfera sessuale, di malattie della pelle, di disfunzioni cardiache, di comportamenti psicologici errati. Ricordo come, ai primi di quell'anno, mio fratello Giordano, dopo la nascita di due femmine, avesse chiesto al Morè come favorire il concepimento di un maschio. La dieta che venne consigliata a Giordano sortì l'effetto desiderato e a dicembre Stella partorì il loro ultimogenito, Daniele, un bel bambino forte e sano.

Non vorrei qui essere frainteso: la conoscenza e l'impiego dell'antica medicina ebraica non si scontra affatto con i canoni della medicina occidentale moderna. La prima si rifà ad una saggezza arcaica, tradizionale e naturistica; la seconda si basa su dati scientifici ed empirici, che trovano riscontro nelle terapie che quotidianamente si applicano negli ospedali, ambulatori e cliniche del mondo. La prima non sostituisce la seconda, ma la integra con le sue cognizioni millenarie. Maimonide, il nostro maggiore filosofo e interprete della Torah, era anche un luminare di medicina e il suo trattato medico, Pirkei Moshe be-refuà, può essere studiato ancora oggi per la sua visione olistica dell'organismo umano e per gli innumerevoli consigli pratici.

I consigli del Morè non erano medicina alternativa, come qualcuno potrebbe pensare, ma conoscenza profonda dell'anatomia, fisiologia e patologia umana; si tratta di una summa di nozioni, che ha radici antichissime, trasmesse spesso per via orale e anche in forma segreta. Oggi, le malattie si possono curare con farmaci mirati, che, tuttavia, possono avere effetti collaterali nocivi o con farmaci che perdono la loro efficacia dopo prolungata assuefazione. Nella medicina del Morè, la terapia è del tutto naturale e viene effettuata tramite le particolari proprietà (seguloth, in ebraico) di erbe, piante, spezie, oli, frutta, verdure e, persino, pietre e gemme.

Un altro importante aspetto da sottolineare è che la medicina del Morè va sempre accompagnata con la preghiera al Signore, che dispone della vita e della morte dei singoli, salute compresa. A volte, è sufficiente la sola preghiera per sanare un fisico malato; e quanto maggiore è la santità (kedushà) dell'orante, tanto più miracolosa risulterà la guarigione. Purtroppo, questo dato di fatto viene giornalmente sfruttato da miriadi di ciarlatani, sedicenti maghi, falsi guaritori, mistici e kabalisti esoterici, che abusano della buona fede di persone ingenue per soddisfare i loro appetiti (soldi, onori o sesso). C'è un solo modo per riconoscere una persona che ha un livello di kedushà superiore: se richiesto ad intervenire, non lo farà mai per ottenere profitti in denaro od onori o riconoscimenti; la sua azione sarà disinteressata, fine a se stessa e leshem-shamaim (per il solo amore a Dio).

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Rimanendo in tema di medicina, il Morè era solito citare due frasi del Talmud che riguardano la classe medica: la prima, che non si può abitare in un luogo in cui non ci sia un dottore; la seconda, che afferma che "al migliore dei medici è riservato l'inferno". Sembrerebbero due frasi contradditorie, ma, in realtà, non lo sono, diceva il Maestro. Il medico ha una funzione sociale insostituibile, in quanto riesce con la sua professione a curare, operare e anche guarire i malati. D'altro canto, questa prerogativa è esclusiva del Signore Santo, che è Rofè holim (guaritore di malati). Possiamo pertanto dire che il medico è un piccolo dio. E, allora, perché mai dovrebbe essere destinato al gheenòm (inferno)? I nostri Saggi, di benedetta memoria, dicevano che questa fine ingloriosa era riservata a coloro che si erano insuperbiti a tal punto da considerarsi come dei, in grado di disporre della vita dei propri pazienti. Quante volte nella nostra vita abbiamo incontrato primari, professori e medici saccenti e presuntuosi, gonfi di superbia, assetati di guadagni, spocchiosi dall'alto delle loro conoscenze in materia, impazienti e irascibili? Fortunatamente, però, ci sono anche medici ben disposti verso i pazienti, umani ed empatici, modesti e altruisti, che, in realtà, praticano il loro mestiere per servire il prossimo, come dice il Maimonide nella sua celebre e bellissima preghiera del medico.

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Nel settembre del 1980, a 76 anni, si spense a Torino la nostra cara Ciccia o zia Bruna, la sorella maggiore di papà. Ci sono persone nella nostra vita, che ci hanno ormai lasciato, delle quali conserviamo tanti ricordi e tutti cari e significativi e lei era senz'altro una di quelle. La Ciccia era molto legata a mia sorella Iliade, che, da adolescente, andava a trovarla per qualche giorno all'anno. Ma con la stessa ospitalità e simpatia, invitava anche noi fratelli e anch'io, a settembre, passavo sempre una settimana nel suo appartamento di via Guala, quando viveva ancora lo zio Rino, che era un po' riservato e, negli ultimi suoi anni di vita, poco lucido perché affetto da arteriosclerosi. Della Ciccia ricordo i suoi occhi neri espressivi e penetranti, la sua risata fragorosa, macchiata da veli di catarro, le sue collane vistose, le sue mani ossute, le sue inseparabili sigarette Alfa. Con la Ciccia si poteva parlare di tutto, era aperta di mente e di spirito giovanile e sapeva stare allo scherzo; aveva un particolare candore infantile, che noi fratelli, ma specialmente papà, sfruttavamo, prendendola in giro con delle frasi provocatorie, a cui lei reagiva stizzita; al ché, le dicevamo "gol" 1 a 0 e, dopo un'ora, si poteva arrivare anche a farle un cappotto... Della sua cucina, ricordo con particolare gusto le sue pastasciutte, che avevano un sugo al pomodoro delizioso. La Ciccia mangiava prosciutto, hazir (maiale) come diceva lei, ma era solita dire "è tanto buono...Dio mi perdonerà...." In realtà, era una donna di valore, che ci teneva tanto al suo juduth (ebraismo), che interpretava nel suo ideale di universalità e solidarietà umana; anche lei avrebbe potuto essere considerata un'allieva del Morè, che era solito insegnarci che il derech eretz precede la Torah e che siamo tutti della stessa carne; e la Ciccia aveva tanto derech eretz, che significa rispettare il prossimo, comportandosi con umiltà e buona disposizione verso tutti, senza distinzione alcuna; ricordo, infatti, con che rispetto e tatto trattava la Dina, la sua guyà (colf non ebrea), che veniva ogni giorno a farle i lavori di casa. Il fatto che al funerale della zia Bruna, al cimitero ebraico di Torino, ci fossero anche il Morè e Peretz, dimostra che la nostra amata parente aveva meritato che nel suo ultimo viaggio terreno fosse presente il Capo dei 36 Giusti Nascosti.

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Alla fine dell'anno, il Morè dovette subire una grave e lunga operazione per rimuovere un tumore che comportò l'asportazione della milza, del grande omento, del tratto terminale dell'esofago, di parte del duodeno e di un grosso calcolo nel fegato. Durante la convalescenza, il 28 gennaio 1981, il Maestro dovette tornare nuovamente sotto i ferri, al S. Raffaele di Milano, dopo un attacco di peritonite. Una delle lezioni fondamentali apprese dalle frequentazioni con il Morè, è che bisogna benedire il Signore nella buona e nella cattiva sorte. Noi non abbiamo mai sentito una parola di lamento dallo Tzadik, in tutto il periodo di degenza e di convalescenza, ma sempre "Baruh Ha Shem" (Benedetto sia il Suo Nome). Ciò significa accettare con amore e con rassegnazione, consapevoli del fatto che ciò che ci manda il Santo Benedetto è a fin di bene. Nel caso del Morè, tuttavia, il discorso assumeva un'altra valenza; il Morè non era una persona comune, ma era un Giusto, un uomo cioè che, secondo l'antica tradizione, riceve su di sé le sofferenze altrui per evitare decreti terribili sul mondo. E' questo un argomento molto delicato e di non facile comprensione; per gli atei, gli agnostici e i razionali è insostenibile ed illogico, tuttavia, va considerato e meditato solo se si ha una profonda fede in Dio e si assume un'attitudine di pensiero, contrassegnata dall'umiltà e dalla sottomissione verso il nostro Creatore. Ho già usato l'aggettivo "imperscrutabili" per definire le vie del Signore. Non siamo qui di fronte ad un semplice fenomeno di causa ed effetto, ma ad una realtà che trascende l'ordine di pensare convenzionale. Non a caso, nella Torah è scritto "ha-nistarot la Shem", le cose occulte appartengono a Dio e i Suoi disegni non sempre sono alla portata della comprensione delle persone razionali. Ed è anche scritto "Non è alla nostra portata capire perché i malvagi stanno bene e i giusti soffrono".

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Dopo il lungo periodo di convalescenza, il Morè riprese ad onorarci con la sua presenza e ad impartirci le sue interessanti lezioni, che trattavano temi disparati (ho riportato parte di queste lezioni in uno scritto di qualche anno fa).

Tra gli avvenimenti dell'anno 1981, ce ne furono tre, in particolare, che attirarono la nostra attenzione: l'attentato in Vaticano al Papa Giovanni Paolo II, il 13 maggio, per mano del terrorista turco Mehmet Ali Agca; la distruzione del reattore iracheno di Osirak, il 7 giugno, da parte dell'aviazione isrealiana: l'uccisione, da parte di fondamentalisti islamici, del presidente egiziano Anwar Sadat, il 6 ottobre, durante una parata militare, che ricordava l'attacco da lui sferrato contro Israele, otto anni prima, nel giorno di Kippur. Riguardo a quest'ultimo avvenimento, ricordo il commento del Morè, che disse "mitatò kaparatò", ossia la sua morte è la sua espiazione. In altri termini, il fatto che avesse attaccato il popolo d'Israele proprio nel giorno a lui più sacro, durante il digiuno d'espiazione del Kippur, era stato, per così dire, "espiato" dalla sua morte, infertagli da gente del suo stesso popolo. Sadat, dopo la guerra del 1973 e in cambio del Sinai restituito da Israele, aveva intrapreso una politica di distensione, arrivando agli storici accordi di pace a Camp David, siglati nel settembre 1978, alla presenza del presidente americano Jimmy Carter e del primo ministro israeliano Menachem Begin.

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Nel 1981, abitavo sempre a Parma con Liat e il piccolo Moshe, in via delle Fonderie, in un appartamento in affitto di proprietà del presidente della piccola comunità ebraica di Parma, Fausto Levi. A Parma, frequentavo pur sempre la facoltà di Medicina ed ero riuscito a presentarmi all'appello di due esami, uno in Biologia, che avevo superato con un mediocre 21/30 ed uno in Istologia, con il temuto prof. Scandroglio, che avevo fallito. A Parma abitavamo proprio davanti al Parco Ducale, uno dei polmoni verdi del centro città ed erano frequenti le nostre passeggiate tra i vialetti alberati di castagni e il laghetto artificiale, aggraziato da pesci, oche e papere. Liat allevava con amore nostro figlio e ogni tre o quattro giorni andavamo alla SIP di piazza Garibaldi per parlare al telefono con i suoi familiari. Ho già avuto modo di dire che era papà che ci pagava l'affitto; tuttavia, per non essere troppo di peso al mio genitore, andavo spesso a Milano e facevo il fattorino dei miei fratelli in macelleria. Con la Fiat 127 verde di papà, portavo i pacchi di carne alla clientela, sparsa un po' per tutta la città. Era un lavoro che mi permetteva di guadagnare quel tanto che ci serviva per vivere decorosamente a Parma. Il lavoro in negozio era piacevole e, grazie al senso di umorismo di Giordano, Renato e dell'aiutante napoletano Antonio, talvolta anche spassoso, avendo noi a che fare con una clientela così variegata che si prestava facilmente a risate e motti di spirito.

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Dal 21 giugno al 19 luglio 1981, grazie alla generosità di papà, il Morè e la signora Mazal vennero con noi all'Hotel Meeting di Zadina di Cesenatico, che fu per anni l'albergo prescelto dalla nostra famiglia per passarrvi le vacanze estive. Fu questo per me un enorme privilegio, perché in quel mese potei stare vicino al Morè ed apprendere molte nuove cose; tra l'altro, il Maestro volle che leggessi con lui l'Igheret hashmad (La Lettera sulla conversione forzata) del Maimonide, uno dei testi classici della Grande Aquila, in cui critica gli ebrei che condannavano i correligionari costretti a convertirsi pur di salvar la vita; meglio sarebbe, afferma il Rambam, che un ebreo lasciasse il posto in cui non ha la possibilità di professare il proprio credo, ma se è costretto all'apostasia, non può per questo essere messo all'indice ed essere considerato idolatra. A prescindere da ciò che scrisse, il Morè prediligeva il Maimonide per la sua attitudine razionalista, di buon senso, mai fanatica, che riflette gli attributi di bontà, di pietà e di misericordia del Signore per il creato. Prima di criticare una persona, diceva il Maestro, è bene mettersi nei suoi panni e valutare perché ha agito in un certo modo; non la si può condannare se ha agito contro la propria volontà. La critica, aggiungeva il Morè, è una delle trappole in cui cade facilmente una persona, perché quasi sempre egli tenderà a dare giudizi affrettati, senza vagliare bene i pro e i contro. Il giudizio vero appartiene soltanto a Dio Benedetto.

Il 14 luglio, feci un sogno alquanto significativo. Sognai di essere con il Morè, che portava una valigia piena di libri. Mi spiegò che dovevo andare in un palazzo di fronte e vendere quei libri agli ebrei che vi risiedevano. "Vai tu, al posto mio, disse il Maestro, bisogna salire al quinto o al sesto piano". Feci come mi disse e, arrivato a destinazione, suonai il campanello ad una porta; mi aprirono due signore anziane che comprarono due libri. Poi, sullo stesso pianerottolo, arrivai alla porta di fronte e notai sullo stipite una mezuzà e, al centro, una targhetta luccicante. Quest'ultima, come d'incanto, si trasformò in porta girevole e davanti a me apparve l'immagine del Rambam, che, dopo qualche istante, scomparve. La porta rimase chiusa e io tornai dal Morè, che mi aspettava giù. La mattina seguente, quando raccontai il sogno, il Morè sorridendo mi disse che avevo meritato e mi assicurò che il Maimonide sarebbe tornato per darmi un messaggio. "Il sogno è importante" disse il Morè "e fra due anni otterrai grandi cose". Forse si riferiva al fatto che, trascorsi due anni, mi sarei dato da fare per diffondere il libro "Milhamot Ha Shem" nella sua versione in italiano, ma su questo argomento tornerò più avanti.

Un'altra importante lezione che ricevetti in quei giorni fu la spiegazione del Morè sul mondo a venire (olam ha-bà). Secondo la concezione del Rambam, nell'aldilà non esistono né corpo né materia, e, alla stessa stregua, non esistono tutte le attività che caratterizzano un corpo umano, come mangiare, bere o avere rapporti carnali. Il Rambam scrive che gli Tzaddikim siedono con le loro corone sul capo e godono lo splendore della Presenza Divina; in altre parole, la conoscenza per la quale hanno meritato la vita del mondo a venire sono presenti e sono la loro corona. La conoscenza della verità è il premio conseguito per la loro vera fede in Dio durante la vita terrena.

Il mese a Zadina fu di giovamento per la salute del Morè, che, piano piano, riprese anche a mangiare, pur se con un minimo appetito, dal momento che aveva subito l'asportazione di gran parte dello stomaco. Anche la signora Mazal apprezzava il posto di villeggiatura, che definiva un "gan eden" (paradiso) in terra.

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Di ritorno a Milano, riprendemmo la consuetudine di frequentare il bar di via Morosini e ascoltare le avvincenti lezioni del Morè; fu in questo periodo che il Maestro iniziò a trattare il tema della falsa e pericolosa kabalah spagnola del libro dello Zohar, falsamente attribuito al grande rabbino d'epoca talmudica, Shimon Bar Yochai. Mi preme qui aprire una parentesi e spiegare che nell'aprile dello stesso anno, prima di accompagnare Liat e Moshè in Israele per trascorrere la vacanza di Pesah a Bat Yam, dai suoceri, il Morè mi aveva commissionato di cercare il libro "Milhamot Ha Shem" (Le Guerre del Signore) del saggio yemenita Yihye Shlomoh El Gafeh. Il Maestro mi disse che sarebbe stato difficile trovarlo e che avrei dovuto cercarlo tra gli ebrei yemeniti dardaim, che erano contrari allo Zohar. Le cose andarono, infatti, come previde. A Tel Aviv non lo trovai e mi fu consigliato di cercarlo a Gerusalemme. Ricordo che nella più grande libreria di testi ebraici religiosi della capitale, mi dissero che il testo era scomparso dalla circolazione perché messo all'indice dai religiosi. Il testo di El Gafeh, infatti, è un componimento ben articolato, che combatte e distrugge le basi teoriche dello Zohar, considerato dai più un libro sacro. Uno dei commessi, tuttavia, mi diede l'indirizzo di un certo Zadok, vicino al gruppo dei dardaim yemeniti, che mi avrebbe potuto aiutare. Questo signore sulla cinquantina gestiva un negozio di gioielleria nel centro di Gerusalemme. Quando mi presentai e gli spiegai le ragioni del mio viaggio in Israele, rimase molto sorpreso e mi disse di possedere una copia del testo originale, pubblicato nel 1931 e, pur essendo molto affezionato al libro, me lo avrebbe regalato con piacere, in quanto questo "era un chiaro segno dall'Alto". Fu così che mi invitò a casa sua, durante la pausa pomeridiana, e me lo consegnò, augurandosi che sarebbe servito ad insegnare ai nostri correligionari il valore dell'Yihud Ha Shem (Unità di Dio).

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Nelle sue lezioni, il Morè spiegava la differenza tra la prima fase della kabalah, originata nella Spagna del XIII secolo e la seconda fase, sviluppatasi in Galilea, nella città di Zefat, due secoli dopo. La prima, teorica e antroposofica, trattava con ricchezza di particolari il tema delle anime; la seconda, più mistica e ardita, speculava su Dio, sulla creazione del mondo e dell'uomo. Nel suo excursus storico, il Morè arrivava alla conclusione che i noti testi cabalistici di Moshe Cordovero, Luria, Haim Vital erano, in realtà, un'accozzaglia di idee strampalate e idolatre, che si fondavano sull'idea blasfema che Dio avesse avuto bisogno di esternarsi nel mondo reale, attraverso contrazioni (la teoria del zimzum) ed emanazioni (le celebri sefiroth). Purtroppo, queste teorie balzane trovarono terreno fertile tra i fedeli e ci furono anche dei movimenti messianici (Shabatay Zvi in Turchia) e delle scuole di pensiero (il chassidismo) che le adottarono e ritenevano che lo Zohar fosse da preferire alle noiose letture della Mishnà e del Talmud. La collera del Morè verso gli impostori che avevano assurto lo Zohar a testo canonico dell'ebraismo era da ricercare nel fatto che, in realtà, esiste sì una vera kabalah, o tradizione, che risale ai tempi dei Patriarchi e, poi, di Mosè, ma essa è retaggio orale esclusivo di pochi eletti, che vivono in uno stato particolare di umiltà e di santità. Sod Hashem leiereav, ossia i segreti di Dio sono per coloro che Lo temono e rispettano; non certo per coloro che Lo trattano come se fosse un essere umano con tanto di facce, emozioni e passioni, come fa lo Zohar! Purtroppo, ripeteva il Morè, l'ebraismo si era inquinato con questi nuovi dèi, sconosciuti ai nostri Padri e nella cantica finale di commiato, Haazinu, Mosè già profetizzava (32, 17-19) "(Il popolo) abbandonò il Signore e Lo offese, Lo fece ingelosire con dèi stranieri e Lo fecero sdegnare con le loro abbominazioni. Non riconobbero Dio, sacrificarono ai demoni che non erano Dio, a nuovi dèi venuti di recente, che i vostri Padri non temettero." Più chiaro di così!

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Alla fine di agosto, capo mese di Elul, il mese della misericordia, che precede il Rosh ha Shanà e il Kippur, mio fratello Renato e sua moglie Paola divennero genitori di un bel bambino, Raffaele. Anche questa volta, il Maestro ci onorò della sua presenza e fece da sandak (patrino) alla cerimonia di circoncisione, che venne effettuata dal chirurgo ebreo Montel il 7 settembre.

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Alla fine del 1981 e agli inizi del 1982 si intensificarono le nostre frequentazioni con il Morè e il suo primo allievo Peretz. Al ristretto gruppo della nostra famiglia, si univano, talvolta, la sorellastra di Stella, Gianna, e suo marito Luigi, un napoletano verace, militare di carriera, che era dotato di una voce bene impostata, per cui ci deliziava a fine pasto con tre o quattro canzoni napoletane, che il Morè apprezzava in sommo grado. Luigi era un tipo affabile e modesto, da tutti amato in quanto alla mano e ben disposto verso il prossimo. C'era poi Maurizio Piha, un trentenne di origini egiziane, molto sensibile e suscettibile, che amava parlare con il Morè in arabo. Qualche volta, si faceva vivo con la sua chitarra anche Edo, un amico d'infanzia di Gino, che aveva una salute cagionevole e, poverino, ci avrebbe lasciato qualche mese dopo, stroncato da un brutto male. Nel nostro gruppo, c'era anche Maria Greca Puddu, o Miriam, una ragazza sarda, estremamente intelligente, che aveva iniziato a lavorare da Peretz, facendo la baby sitter e la colf nell'appartamento di viale Plebisciti. Miriam assimilava con estremo profitto le lezioni di vita ebraica della famiglia che la ospitava e ben presto si convinse (e il Morè glielo confermò in seguito) di essere un'anima ebraica che tornava alle proprie origini. Il processo di conversione durò qualche anno e culminò con l'ufficializzazione nella sinagoga di Milano, sotto il mandato del rabbino Laras. Miriam assunse il nuovo nome di Sara. Oggi Sara è felicemente sposata con Eli Markus, un ebreo di origini canadesi, conosciuto in Israele; ha tre figli e vive a Calgary, in Canada.

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La tavola, attorno a cui si mangia, è un luogo sacro e benedetto, dove si trattano argomenti che hanno a che fare con la Torah, con la natura, ma anche con l'attualità, e sempre in uno spirito di armonia e di allegria, senza però mai cadere nella volgarità o nelle banalità. Il Morè alla fine dei pasti, ci deliziava con gustose lezioni che trattavano la spiegazione di episodi biblici o di sentenze dai Salmi o dalle Massime dei Padri, racconti di vita vissuta, segreti riguardanti la natura, gli animali, le stelle, le virtù delle erbe, la salute, gli esseri che vivono nei mondi di sotto (sheddim), le magie e le stregonerie nel mondo. Se richiesto, poi, (specialmente da Gino), il Morè trattava argomenti di più ampio respiro, che sono alla base della filosofia e della morale, come il libero arbitrio, il premio e la punizione, la natura del bene e del male. Sovente, le spiegazioni erano in ebraico e Peretz si prestava a tradurle in italiano.

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Il mese di febbraio fu ricco di incontri a casa del Morè. Ricordo con particolare gioia la ricorrenza di Tu bi Shevat (il 15 di Shevat), la festa degli Alberi, in cui il Morè ci spiegava che è il tempo del "matrimonio" delle piante e del mondo vegetale, grazie all'irruenza dei venti che soffiano in questo periodo. Una festa ecologica ante litteram. In Israele, infatti, si è soliti piantare alberelli nelle scuole e negli asili. Mio fratello Renato si presentò a casa del Maestro con un immenso cesto di frutta fresca, abbellito e adornato da diversi tipi di frutta secca. Un vero spettacolo di colori e profumi, che il Morè accompagnò con il suo caratteristico "oohò", esclamazione orientale per esprimere sorpresa mista a gradimento.

Alla fine del mese, grazie all'interessamento di papà e mamma, resero visita al Morè la zia Cornelia e lo zio Marino, arrivati appositamente da Carmignano di Brenta. Lo scopo della visita era la salute della zia, che soffriva di crisi depressive, accompagnate da impeti di collera e di furia blasfema, che impensierivano non poco suo marito. Il Morè si appartò con gli zii e intervenne a suo modo per far star meglio la zia. Dopo aver fatto quello che doveva fare, il Morè spiegò che, grazie a Dio, era stata liberata da un ruach ra'à (uno spirito maligno) di un prete malvagio che si era tolto la vita e aveva avuto il permesso di entrare in lei e di disturbarla. Ricordo il pianto liberatorio degli zii e la sensazione di alleviamento che provò Cornelia, alla fine dell'incontro. Il Maestro diede anche qualche consiglio alla zia, invitandola ad avere fede in Dio.

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Alla fine di marzo, il Maestro venne nuovamente ricoverato all'ospedale S. Carlo per sottoporsi alle analisi e alle cure dei medici, che constatarono un peggioramento nel suo stato di salute generale. Mi piace qui ricordare la mia cara mamma, che mi preparava dei piccoli spuntini a base di scaglie di parmigiano, spremute di arancia, pappa reale e quant'altro potesse giovare alla salute debilitata del Morè. Noi, poi, aggiungevamo dei cioccolatini al caffè, i Pocket coffee, che gli erano molto graditi. Nonostante la malattia, che lo indeboliva fisicamente, il Morè continuava pazientemente a darci lezioni di Torah e a infonderci uno spirito di serenità e di amore per il creato e per il Creatore. In questo periodo di estrema sofferenza, Peretz portava avanti la traduzione in italiano del libro "Milhamot Ha Shem" che concluse il 19 aprile 1982. E' molto indicativo che all'alba di quello stesso giorno feci un sogno importante (lo riporto dal mio diario d'allora): "Mi trovo in una sinagoga antica (XVI secolo) e inizio a pregare. A un certo punto, disturbato dalle preghiere di alcuni hassidim, mi alzo e urlo a viva voce "chiamo a testimone Dio per maledirvi a causa del hilul ha Shem (profanazione del Nome) che fate con le vostre preghiere!" "Come osi maledire in una sinagoga?" mi apostrofa un vicino. "Perché questo è in difesa del Nome di Dio" gli rispondo. Sento un gran trambusto intorno a me, ma noto che davanti a me ci sono due persone anziane con la barba che mi sorridono compiaciute". Va comunque notato che il Morè fece a tempo a benedire la traduzione del testo di El Gafeh, dicendo "Questo libro sarà benedetto".

Il 26 maggio, vigilia di Shavuot, eravamo tutti presenti per festeggiare a casa del Morè il suo 68esimo compleanno (68 in ghematria è Haim, cioè vita, il nome del Morè). Il giorno seguente, festa del Matan Torah, lo Tzadik decideva di riposare e la sua anima saliva al Creatore. Restava con noi il suo spirito vitale (nefesh), dentro al corpo fisico. Rimaneva con noi, nel mondo terreno, ancora qualche giorno per regalarci qualche merito. Il 30 maggio, terzo compleanno di mio figlio Moshe, secondo la data ebraica, portammo il bambino dal Morè affinché ricevesse la benedizione. Lo Tzadik gli mise la mano in testa e lo benedisse; poi Peretz tagliò una ciocca di capelli (è usanza ebraica non tagliare i capelli ai bambini nei primi tre anni) a Moshe e la cerimonia si concluse in un'atmosfera di mestizia. Il giorno seguente, il Morè prese la mano di Peretz, da una parte, e la mia, dall'altra e disse con un filo di voce "atem tihiù mekusharim (voi sarete collegati)". Il Morè è rimasto in questo mondo per ancora due settimane, senza mangiare o bere e il suo spirito vitale si è spento il 15 giugno 1982, 24 di sivan, alle ore 19.10. Nel momento del trapasso, Peretz ha proclamato a voce alta "Shemà Israel, Adonai Elohenu, Adonai Ehad"(Ascolta Israele, il Signore è il Nostro Dio, il Signore è Uno)

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L'indomani, alle ore 15.30, si svolse il funerale nel Cimitero Israelitico di Milano. Erano presenti una ventina di persone. Il primo talmid, Peretz, nella sua orazione funebre ricordò prima la santità del padre del Morè, che aveva trasmesso al figlio i Segreti della Torah. Poi, rivelò ai presenti che il Morè era uno Tzadik Elion (un Giusto che si trova ad un livello di santità superiore). Egli aveva insegnato Torah ad Aden per poi andare a vivere al Cairo, dove era stato per anni macellatore rituale della comunità cairota. Arrivato a Milano alla fine degli anni Sessanta, il Morè aveva protetto la città con la sua presenza. Ricordò ai presenti la sua estrema umiltà e povertà e il fatto che in una comunità di persone ricche e benestanti, avesse passato tre giorni digiunando, non avendo i mezzi per poter comprare qualcosa da mangiare. A questo punto, il rabbino Laras e due correligionari interruppero Peretz, dimostrando la loro disapprovazione, ma l'allievo proseguì dicendo che per merito dello Tzadik la comunità era stata perdonata.

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Ci furono in Israele e in Italia due avvenimenti che avvennero in concomitanza con la dipartita del Morè. Il 6 giugno, nei giorni terminali del trapasso, l'esercito israeliano invadeva il Libano del Sud, ormai in mano dei miliziani di Arafat, per reagire al grave ferimento dell'ambasciatore israeliano a Londra, Shlomo Argov, e ai reiterati cannoneggiamenti dell'OLP contro le cittadine del nord della Galilea. Si trattò di una guerra cruenta, nella quale Zahal arrivò finoa Beirut per distruggere il quartier generale di Arafat. In effetti, nel Libano si combatteva già da qualche anno una cruenta guerra civile tra fazioni ed etnie diverse (cristiani maroniti, sciiti pro siriani, drusi, sunniti, palestinesi). Israele si ritirò da Beirut due mesi dopo ma occupò la parte meridionale del paese, che rafforzò con un contingente militare cristiano (Esercito del Sud Libano). Da questo conflitto Israele uscì con più di 350 vittime e con un migliaio di feriti. In Italia, invece, i giorni di giugno videro gli italiani incollati davanti agli schermi televisivi; in Spagna, infatti, si giocavano i mondiali di calcio e la squadra azzurra, dopo un inizio incerto, cominciò ad inanellare un successo dopo l'altro, (storica la vittoria sul Brasile per 3-2 con tripletta di Paolo Rossi) arrivando in finale contro la Germania. Ai primi di luglio, poi, gli italiani superarono per 3-1 i tedeschi, suscitando un'ondata di indescrivibile entusiasmo in tutto il paese. Ricordo qui le parole di Peretz, che in un bar, mi spiegò che quando lo Tzadik salì in alto c'era una grande gioia, che si era riflessa anche giù, nel paese dove egli aveva vissuto.